In quanto a «tradimenti» Pinter non ha niente da temere. Quello è il testo, quelli i dialoghi, quelle le didascalie. Nessuna manomissione è ammessa. Regola ferrea, diritti inscalfibili. Unico tradimento possibile quello che il regista fa a se stesso. Michele Sinisi ama assemblaggi e depistaggi. Con Pinter morde il freno ma non rinuncia alla deflagrazione: la scena (installazione digitale), la musica (rock pop), il finale (un sabba tarantolato). I suoi Tradimenti, fra i più fortunati lavori del premio Nobel britannico (la prima è andata in scena a Londra nel 1978), rappresentati alla Sala Fontana, fanno i conti con questa dicotomia. E ne escono vincenti. La storia è nota. L’adulterio è la casa comune di Emma (Stefania Medri), Jerry (Stefano Braschi), Robert (lo stesso Sinisi). Tutti tradiscono tutti. Una recherche à rebours che diventa una ripetuta, grottesca amnesia, la resa a un presente appiattito, unica dimensione abitabile della loro desolazione interiore. Conversare è piacevole. Ma dietro il paravento del più squisito fair play, filtrano reticenze, ipocrisie. Il Pinter di Sinisi è fisico, sanguigno, poco mentale. Ma non per questo meno crudele, o minaccioso. Il vuoto respira assordante e fa ancora più male.