«Caracciolo è un giovane nato per il cinematografo, come gli scoiattoli per i rami degli alberi». Così il produttore Mario Sequi parlava di Emanuele Caracciolo in un articolo per la rivista Film scritto durante le riprese di Troppo tardi t’ho conosciuta!, primo e purtroppo unico film del regista tripolino realizzato nel 1940, poco distribuito e strapazzato dalla critica dell’epoca. Per anni le parole di Sequi sono rimaste sospese nel vuoto, in un limbo di rimpianto e mistero a causa della pellicola data per persa e introvabile, fino al casuale e quasi avventuroso ritrovamento una decina di anni fa nella cantina di un cinema di Cuneo.

Tratto dalla commedia Il divo di Nino Martoglio, il film, presentato all’appena concluso festival I Mille Occhi di Trieste, racconta di Tonino, giovane figlio di un mugnaio dalle straordinarie corde vocali che cade nella rete della sedicente e seducente contessa Ruiz alla ricerca di facili guadagni. Il ragazzo, interpretato dal grande tenore Franco Lo Giudice, diventa ben presto richiestissimo da tutti i teatri ma viene ridotto letteralmente alla fame dalla bramosia di denaro della contessa fino all’arrivo del padre che, con uno stratagemma, allontanerà la donna e riporterà al paese l’ormai afono Tonino che sarà però presto curato dall’amore di una ragazza del luogo.

Emanuele Caracciolo, dopo l’adesione giovanile al Futurismo (Marinetti gli regalò l’epiteto «futurista veloce» e il diploma al Centro Sperimentale (stessa classe di Pietro Germi e Luigi Zampa), si era cimentato come aiuto regista, scenografo e sceneggiatore, spesso non accreditato, per Carmine Gallone nel sottogenere del biopic lirico, da E lucevano le stelle fino a Giuseppe Verdi. Nel 1939 il via delle riprese di Troppo tardi t’ho conosciuta!, film che sembra quasi anticipare per immagini la battaglia che dal 1940 Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani e altri combatteranno sulle colonne della rivista Cinema contro gli allora trionfanti e retorici film d’evasione.

Indifferente alla verosimiglianza della storia narrata, il giovane Caracciolo ha l’ardire di mescolare donne velate alla Von Sternberg a buffi caratteristi pre Helzapoppin’, scenografie da telefoni bianchi con teatri invasi di anatre starnazzanti. La carica sovversiva del film infatti, unita a una furia sanamente iconoclasta e allo sbeffeggio del mondo della lirica, scatena un’instancabile ronde visiva ebbra di avanguardia e anarchica melomania, una continua reinvenzione dell’inquadratura e del movimento di macchina dove l’assurdo, e l’accumulo visionario, sembrano le uniche leggi possibili per decifrare un’Italia impazzita oramai alle soglie della Seconda Guerra Mondiale.
E la follia culminerà soltanto quattro dopo quando Caracciolo verrà imprigionato a Regina Coeli, a causa della sua intensa attività antifascista che lo vedeva ospitare numerose famiglie ebree e amici disertori, per poi essere condotto, insieme a oltre trecento compagni, alle Fosse Ardeatine dove fu orrendamente trucidato nel marzo del 1944.