Alla seconda estate dal primo lockdown si può ormai iniziare a rileggere, con la dovuta distanza, quell’esperienza che accomunò buona parte della popolazione mondiale. Imponendo a tutti, per l’appunto, una distanza, che è essa stessa cifra dello sguardo fotografico. Il libro di Luca Zenobi, E a noi è caduto il cielo sulla testa. Fototesto del lockdown (introduzione di Gian Piero Piretto, collana «i quaderni di Arabeschi», Duetredue edizioni, pp. 120, euro 20), racconta quei giorni dalla focalizzazione di una finestra di appartamento, divenuta fulcro della vista e della mente.

«Fototesto», più in generale «iconotesto», è interazione dialogica, non meramente didascalica, di rappresentazione visiva e verbale. Il diario fotografico in oggetto lega in effetti immagine e parola in «un percorso in cui la scrittura funge da mappa o anche da provocazione» (Zenobi), con due livelli testuali sovrapposti. L’uno fatto di brevi messaggi telefonici «in diretta», ricevuti dagli amici per superare assieme il momento, l’altro di citazioni letterarie o filosofiche trasfiguranti, dalla cui prevalenza germanistica si coglie l’ambito professionale dell’autore.

DUE MOVIMENTI, intimità dell’esperienza resa quanto mai tipica ed estraneazione del pensiero, in cui «torna la funzione dell’inquadrare, non solo visivamente, uno stato mentale più che un luogo fisico e indugiare su di esso» (Piretto).
La fissità è tematizzata dalle quattro sezioni del libro, che ripetono la medesima scansione dei giorni su orizzonti differenti. Ad essa, e al tema faustiano dell’attimo, Zenobi riconduce la riflessione sul medium, fotografico e fototestuale, in un saggio introduttivo. Nella composizione degli scatti la ricerca delle geometrie e delle luci sembra prevalere sul ritratto psicologico degli inconsapevoli protagonisti, passanti, vicini e familiari colti nell’isolamento reciproco. Il paesaggio di abitazioni popolari di due città minori del centro Italia, toccate solo marginalmente dalla pandemia, viene astratto in dettagli metafisici. Ma gli attimi vitali delle figure umane oppongono una rottura realistica. Ne emerge un diario tutt’altro che individuale, «un racconto sulla solitudine. Che c’è sempre. La quarantena la rivela» (messaggio di Giovanna).

ED È DAVVERO una condizione essenziale, nessuna retorica del lockdown si avverte, come alcun riferimento agli avvenimenti oltre l’orizzonte della finestra. Frammenti di quotidianità ingigantita, assenze meditative, ma pure la resistenza di ritualità religiose o laiche, per cui alla data del 25 aprile su un balcone può apparire ancora una falce e martello. A sventolare, nell’assoluto del cielo «caduto sulla testa», è però un tricolore, reso emblema di un vuoto dai versi di Hölderlin: «I muri stanno / Afoni e freddi, nel vento / Stridono le bandiere». Un vuoto che adesso possiamo realmente dire tale, se poco o nulla è stato mutato da quella comune esperienza.