Quanto pesa la veste grafica nell’acquisto di un libro? Perché una copertina ci pare bella? Ad attrarre chi legge è il piacere della conferma – il blu Sellerio, il Baskerville di Adelphi – o il gusto dell’inatteso? Sono domande che si ripropongono senza che ci sia una risposta definitiva. Se n’è parlato di recente nel Regno Unito quando, con la riapertura delle librerie post-Covid (ammesso si possa usare impunemente il prefisso «post»), molti responsabili della catena Waterstones hanno esposto i libri sui banchi «a faccia in giù» per consentire ai clienti di leggere i testi sulla quarta di copertina senza toccare i volumi.
«Una scelta comprensibile, ma triste», ha detto la designer Anna Morrison, interpellata da Mark Brown per il Guardian: «C’è impegno e amore nel nostro lavoro, è un peccato che resti nascosto». Per Suzanne Dean, a capo della grafica di Vintage, «la copertina è il manifesto in miniatura del libro: mi auguro che venga affiancata alla quarta per mostrare il design completo». Da Waterstones sono piovute scuse e promesse: «è una misura provvisoria, speriamo di tornare presto alla normalità». Lo speriamo pure noi.
Intanto, però, complice l’ignaro coronavirus, le copertine sono al centro dell’attenzione. Ai lettori in forzata clausura la New York Public Library ha proposto di dare nuova veste ai libri più amati (i risultati sono su Instagram, hashtag #bookcoverdouble), mentre la Bbc ha riesumato il vecchio interrogativo: cosa rende iconica una copertina? La ricetta non c’è, ma vale la pena citare il designer Jon Gray, che paragona le librerie a un party affollato: «Per far colpo e costringere qualcuno a prendere in mano un libro, lo sforzo è sempre più grande». E con le vendite in rete il desiderio di farsi largo a gomitate è cresciuto: «Il marketing online favorisce copertine dai colori vivaci e saturi. La carta deve adeguarsi alla brillantezza dello schermo».
Ma i tempi stanno cambiando. Su Elephant è uscito un articolo in cui si esalta l’intuito di Jacques Testard, fondatore nel 2014 a Londra di una piccola casa editrice, Fitzcarraldo, che ha intercettato in anticipo due Nobel – Svetlana Alexievic e Olga Tokarczuk – e propone oggi un catalogo eccellente (in un’intervista su LitHub Testard si definisce un editore all’antica, che punta sugli autori più che sui singoli titoli, convinto che la bontà di un libro si veda sulla durata). «A parte il tocco di Mida di Testard – scrive su Elephant Ravi Ghosh – Fitzcarraldo ha ricevuto consensi entusiasti per l’estetica particolare dei libri: i volumi, tutti in brossura, hanno copertine identiche, azzurro intenso per la narrativa e bianco crema per la saggistica… Le copertine del grafico Ray O’Meara alimentano e riflettono una tendenza che coincide con la rinascita dell’estetica minimalista e di un culto della pulizia fondato su ordine e funzionalità». Che l’editoria non sia solo una giostra dove un libro si brucia in due mesi, è confermato da tre anniversari. Il primo, in Germania: nel luglio 1950 la casa editrice Suhrkamp viene iscritta alla camera di commercio di Francoforte e due mesi dopo Peter Suhrkamp presenta le uscite inaugurali. Tra i titoli, i Saggi scelti di TS Eliot, il Diario 1946-1949 di Max Frisch, Il gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse, Infanzia berlinese di Walter Benjamin: «autori e libri – è scritto oggi nel sito dell’editore – che hanno accompagnato la casa editrice nei suoi 70 anni di storia». Gli altri due anniversari sono a cavallo tra Gran Bretagna e Usa: fondate entrambe nel 1970, Verso e Feminist Press arrivano al mezzo secolo. Ne riparleremo. Intanto, auguri a tutti – anche a noi, ne abbiamo bisogno.