Sarebbe molto difficile negare che molte nostre azioni dipendono da automatismi. Se dovessimo ogni volta pensare prima di agire perderemmo un sacco di tempo per scegliere e decidere. Invece sembra che l’esperienza ci permetta di usare automaticamente un modello o più modelli di reazione e risposta, anche senza pensarci e senza esserne consapevoli. Magari poi scopriamo che la risposta è stata automatica, sì, ma è sbagliata. Potrebbe essere visto così il dramma che sottende a ogni sorta di comportamento che si basi su un automatismo, ma non si risolve tutto con una battuta. Il problema è assai serio.

CE LO DIMOSTRA BENE un recente saggio di Igor Pelgreffi, Filosofia dell’automatismo (Orthotes Editrice, pp. 228, euro 19). Un lavoro esplorativo e propositivo insieme. Perché da una parte illustra e commenta una ricca bibliografia filosofica novecentesca (ma non sempre filosofica e non solo novecentesca) avvertita di questo imbarazzante doppio modo di esistere e di stare al mondo, cioè di essere allo stesso tempo coscienti e incoscienti del desiderio, della volontà, dei pensieri e dei ragionamenti. Dall’altra sembra voler indicare un’uscita dall’automatismo ottuso, stupido, cioè da quell’automatismo che ci fa pure credere di star facendo bene o nell’unica maniera possibile. Per questo secondo progetto critico, il libro ha un sottotitolo: Verso un’etica della corporeità.

SI SARÀ GIÀ CAPITO, così, come secondo l’autore sia il corpo il crocevia attraverso il quale ogni riflessione sulla nostra capacità di scelta e di azione deve passare. Proprio il corpo, quello che sente e si corrompe, quello che trascuriamo e che releghiamo in ruoli secondari, che facilmente sentiamo come qualcosa di diverso da quel che siamo. E che pur tuttavia è l’unica prova della nostra esistenza. Il corpo, già, il corpo. Da molto tempo l’essere umano si aggira per il mondo in compagnia di una serie infinita di strumenti e di dispositivi che sono collegati all’azione del corpo. Dall’automobile allo smartphone, dalla leva al telecomando, siamo abituati a trasferire i nostri automatismi su protesi o quasi protesi, su altri operatori automatici che ci risparmiano tempo e fatica.

TANTO DA NON PERCEPIRE neppure più la natura ancora aliena (parzialmente) di questi oggetti: chi non è mai caduto nel cortocircuito di voler usare il cellulare per avvisare casa che ci si è scordati il cellulare a casa?
Tutto questo mondo banale e abissale insieme, Pelgreffi lo attraversa con grande cura, di letture e di argomentazioni, passando varie dimensioni. Aspetti sociali e individuali, derive tecniche e arenamenti naturali, discutendo il rapporto tra competenza e conoscenza (anche in senso pedagogico), e a proposito del mestiere dell’attore ragionando sul rapporto tra spontaneità, immedesimazione e finzione. Ma è sempre al corpo che ritorna: sia quando si rivolge a Merleau-Ponty, per la questione della percezione del sé, sia quando guarda a Camus, per la ribellione alle proprie e altrui abitudini.

RIFLETTERE e controllare quel tratto di coscienza nebuloso per sentire o capire cosa sia automatico nei nostri comportamenti, cosa sia frutto dell’arte o dell’ignoranza se non proprio dell’insipienza, se sia ancora prodotto psico-fisiologico umano o mediazione tecnologica o sociale, è una cosa che facciamo tutti i giorni, ma mai abbastanza. Aver ritagliato, nel vasto campo del discorsi filosofici, uno spazio circoscritto al tema dell’automa e dell’automatismo è certamente un merito di questo libro.