Emilio Vedova Disegni, la mostra veneziana presentata dalla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, a dieci anni dalla scomparsa dell’artista, mette sotto gli occhi un Vedova sorprendentemente nuovo. Allestita nella sede espositiva del Magazzino del Sale, Zattere 266, e in corso dal 29 maggio al 1 novembre 2016, la personale riunisce per la prima volta un corpus di trecento opere su carta, appartenente all’archivio della Fondazione, restaurato da Luisa Mensi e in gran parte inedito, che va dagli esordi nel 1935 fino agli ultimi lavori nel 2005.

Di colpo questi piccoli disegni cromatici, spessi e tattili, situano lo spettatore a tu per tu con l’artista, chez lui, educandolo a una combattività quotidiana. «Ogni giorno è un giorno», recitava un cartello scritto a mano da Emilio Vedova e appeso nel suo studio. Di esercizio, di impegno, di attenzione all’esperienza, nella lotta fisica e psichica con ritmi del mondo a cui dar forma (informale, qui è un’etichetta inappropriata). Il catalogo edito da lineadacqua, con splendide fotografie, lo rivela. È un impatto che il grande formato della più nota produzione di Vedova non può suscitare.

La mostra rende conto del rapporto fra disegno e dipinto. I curatori, Germano Celant e Fabrizio Gazzarri, che è anche direttore dell’Archivio e della Collezione Vedova, distinguono tre momenti. I lavori giovanili, dal 1935 al 1940, sono esposti all’inizio del percorso, in due teche, custoditi a testimoniarne il valore affettivo.
Vedova li ha infatti protetti in anni difficili e nei vari traslochi fra i suoi studi. Si vedono l’Autoritratto del 1937, un nervoso gessetto su carta, seguito da inchiostri degli interni architettonici di Sant’Agnese (1936) e di San Salvador (1936) e da studi delle Fondamenta alle Zattere (anni Trenta), della facciata di San Moisé (1937), di Ballerine (1937).

Provano l’uso del disegno come diagramma di sensazioni del divenire della realtà. L’azione grafica è in presa diretta, e futurista, perché fissa su carta il tempo, non la dimensione spaziale.
Sapientemente, il secondo momento del percorso riproduce in scala questa sismografia, con un compatto patchwork a parete – 27 metri di lunghezza e 3 di altezza – di disegni compresi fra il 1940 e il 2005, ma montati in ordine sparso. Una sorta di murales dai bordi sfrangiati, continuo alle teche e posto sullo stesso lato, che magnifica la vitalità del metodo di Vedova. Immagine di uno street artist ante litteram.
Ciascuno dei disegni è reciprocamente un frattale del murales. Segna l’abbandono della rappresentazione mimetica a favore di un reportage figurale: tracciatura di respiri, di battiti cardiaci, di nervosismi in compresenza di avvenimenti politici.

Il Personaggio/Incubo (1941- 42), il Combattimento (1942-43) e i Senza Titolo degli anni della guerra e della partecipazione alla Resistenza, i cicli della protesta, lo Scontro di situazioni, gli affreschi del Brasile, Intolleranza 60, Prometeo, i Plurimi dell’Absurdes Berliner Tagebuch 64, il Cile contro di Pinochet, la Spagna contro di Franco, i cicli del Messico e i dipinti del De America vanno letti secondo il filo coerente di una cronaca sensomotoria del proprio tempo. Da «semionauta» (Celant), Vedova inventa una sua scrittura della realtà. Il gesto non si inscrive mai in orizzontale, con il piano collocato a terra come in Pollock, ma in verticale, perché di fronte all’evento.

Sul De America, un ciclo di cinquanta tele tra il 1976 e il 77, paradigmatiche dei soggiorni e viaggi americani, uscirà a breve, per Skira, un volume a cura di Celant, con ricerche biografiche e documentarie di Laura Lorenzoni. Mentre, a partire dal 15 luglio, nello spazio polifunzionale della Fondazione, è prevista la rassegna di concerti Euroamerica, a cura di Mario Messinis, con Chick Corea, Uri Caine e Jack Quartet fra gli altri.
Il terzo momento della personale ricongiunge disegno e dipinto, tramite due serie di teleri degli anni Ottanta, di cui alcuni inediti, movimentati nello spazio del Magazzino. Il sistema meccanico-robotico di alta tecnologia progettato da Renzo Piano sembra «strappare» le opere dal muro e rianimarle per esaltare la continuità, la spinta in avanti, dalla fase fondante e preparatoria del disegno, comunque policromo, al quadro. Legittimo interrogarsi sulla linea di demarcazione tra l’uno e l’altro.

La tecnica, certo: sanguigne, matite, inchiostri, carboncini e pastelli, rispetto al colore a olio del dipinto. Ma soprattutto il supporto: carta versus tela. È la carta a favorire la velocità dell’operare, con l’inconfondibile Pentel pen, il pennarello nero che schizza in un aspetto a metà fra parola e immagine. Perciò Annabianca Vedova ha definito «quasi disegni» le decine di tele dei primi anni Ottanta non preparate, lavorate con idropittura e pastelli, che hanno dato adito a un fiume in piena di aggressive sequenze segniche.
Sempre la carta, priva di cornice, permette relazioni di prossimità, di intimità. Se ogni buona mostra trasforma il suo visitatore, Emilio Vedova Disegni accende il desiderio di toccare queste carte, di averne una per sé, di studiarle da vicino, singolarmente, in un accessibile archivio.