Antony Valabrègue era uno scrittore amico di Paul Cézanne. Faceva parte di quel cerchio magico di giovani concitati di Aix guidati a Émile Zola, che stavano puntando a cercare l’avventura intellettuale a Parigi. Nel 1866 Cézanne gli aveva fatto un ritratto con l’idea di sottoporlo alla giuria del Salon. «Paul sarà senz’altro rifiutato», scrisse Valabrègue a un amico. «Un giurato mi ha gridato contro vedendo il mio ritratto. Diceva che non era dipinto con la spatola ma con la pistola». Dieci anni dopo, alla terza esposizione degli Impressionisti, Cézanne si presentava con il ritratto di un suo nuovo amico, appassionato collezionista, Victor Choquet. Le reazioni non furono molto diverse: Louis Leroy, un critico noto per le sue polemiche contro Monet e amici, scrisse che bisognava evitare che le donne incinte si trovassero davanti a quel quadro: «Potrebbe trasmettere la febbre gialla al bambino prima ancora che venga al mondo».
Sono due aneddoti che però ci portano nel climax di questa grande mostra, che ha avuto una prima tappa parigina al Musée d’Orsay e che ora è alla National Portrait Gallery di Londra (sino all’11 febbraio; a marzo approderà alla National Gallery di Washington). Il ritratto per Cézanne è davvero un campo di battaglia. Nella sua vita ne dipinse 160 (di cui 28 alla moglie Hortense Fiquet); ai quali vanno aggiunti 46 autoritratti: in uno di questi, realizzato nel 1886 (esposto a Parigi ma assente a Londra) si vede Cézanne dietro il cavalletto con tavolozza e pennelli in mano. Giustamente John Elderfield, uno dei curatori, nella scheda di catalogo scrive che si tratta di un autoritratto in barricata: Cézanne si rappresenta protetto dal muraglione della tela, con la tavolozza imbracciata in modo strano, tanto da evocare uno scudo, e i pennelli ostentati come pugnali.
Sono decisamente molto battaglieri i primi anni, raccolti in una delle sezioni più sorprendenti della mostra. Cézanne deve farsi spazio rispetto alla volontà paterna che lo vorrebbe orientato su tutt’altre strade. Il praticantato presso lo zio materno, l’ufficiale giudiziario Dominique Aubert, si trasforma per compiacenza dello stesso zio in palestra di pittura: il pomeriggio infatti Cézanne nello studio dipinge. E spesso il soggetto è proprio «oncle Dominique». Sono ritratti di piccole dimensioni, densi, che il critico Lawrence Gowing aveva giustamente etichettato come «feroci». La tela viene aggredita con dosi di colori massicce, senza fare distinzioni tra zone di fondo e soggetto. È pittura in tumulto che viene trattata a colpi di spatola, come se il quadro invece di essere dipinto dovesse essere scolpito. Si avverte la figliolanza da Courbet, ma è un Courbet acceso da un’eccitazione che sembra andare ogni istante fuori controllo. Non a caso nel primo Autoritratto del 1862 vediamo un Cézanne quasi irriconoscibile con gli occhi che sembrano iniettati di sangue in un atteggiamento sfidante.
C’è spazio anche per un ritratto al padre che è una sorta di esplicitazione delle proprie reali intenzioni: Louis-Auguste sta leggendo in poltrona L’Evénement, il giornale sul quale Zola aveva pubblicato la sua celebre difesa degli artisti rifiutati dal Salon. Siamo nel 1866 e sul muro alle spalle si scorge una Natura morta di Cézanne. Il dado era tratto…
Nel 1870 risponde a Manet dipingendo anche lui un ritratto del suo «capobanda» Émile Zola. Il gruppo di amici di Aix si è nel frattempo trasferito in blocco a Parigi e nel quadro si vede Paul Alexis che legge un suo componimento a Zola, il quale se ne sta sdraiato come un pascià nella casa nel quartiere di Batignolles. Il quadro non è finito perché nel frattempo lo scoppio della guerra franco- prussiana aveva indotto Cézanne a un ritorno a casa.
Per quanto casuale, quel «non finito» sancisce un passaggio emblematico. Quello che si affaccia sugli anni settanta è infatti un Cézanne diverso, che ha calmato gli spiriti bollenti degli inizi e che decide di combattere una sua battaglia ugualmente intensa, anche se meno plateale. Negli autoritratti straordinari di metà decennio lo troviamo anche con la fisionomia cambiata, calvo, con la barba nera e folta. «La loro presenza si chiude su di noi come una realtà colossale», avrebbe scritto Rilke nelle sue celebri lettere del 1907 davanti a questi quadri. Cézanne si è liberato di quell’intenzionalità militante che aveva contrassegnato la prima stagione. È un passaggio che Zola non gli avrebbe perdonato, tanto da arrivare nel 1886 a pubblicare un romanzo, L’Oeuvre, che metteva nel mirino l’amico. «Un grande artista abortito», diceva con sprezzo di lui.
Nel suo schematismo Zola non aveva capito che Cézanne in realtà stava ancora di più affondando i suoi colpi. Il rettangolo della tela restava un campo di battaglia, ma di una battaglia che doveva fare i conti non tanto con il mondo quanto con la violenza delle sensazioni che la natura accendeva nei suoi occhi, nella sua testa e nel suo cuore. Per combattere questa battaglia Cézanne doveva stare nella trincea del suo studio, applicarsi con disciplina anche seriale sullo studio dei suoi soggetti. Hortense Fiquet, la donna da cui aveva avuto un figlio nel 1872 e che avrebbe sposato nel 1885, diventa la vittima paziente e designata di queste lunghe sedute. L’occhio di Cézanne si posa su di lei senza nessun afflato: i suoi ritratti non hanno mai la minima concessione alla psicologia o ai sentimenti. Il modello davanti a lui viene trasformato in un automa, attraverso sedute estenuanti in grado di svuotare il protagonismo di chiunque. E Hortense è l’automa perfetto, che posa come potrebbe stare in posa una mela: distante, con lo sguardo spesso vuoto, senza interferire in nessun modo con i pensieri e gli sguardi di Cézanne.
In mostra è stata ricostruita la serie dei ritratti dipinti alla fine degli anni ottanta con madame Cézanne in abito rosso (un abito da casa, come ha ricostruito Susan Sidlauskas, che nessuna donna avrebbe mai indossato in pubblico). A Londra, rispetto a Parigi, manca la versione capolavoro con tanto di tendaggio a motivi naturali del Metropolitan, ma l’effetto è ugualmente impressionante. Il volto è un ovale al quale l’orecchio riserva il minimo disturbo; i capelli sono raccolti. C’è ordine e controllo della situazione. Eppure Hortense non è stabile sulla tela. Sembra stare su una piattaforma traballante: per questo le sue pose sono tutte oblique. Sarebbe accaduto, in effetti, a un modello di cadere dalla sedia, in un’altra celebre occasione, quella del ritratto ad Ambroise Vollard. Ma il gallerista era caduto per estenuazione, durante l’ennesima lunga seduta di posa.
In realtà chi sta sul ciglio di quel baratro che è la tela è sempre e solo Cézanne. È lui che ogni volta si trova a combattere la battaglia per contenere e mettere ordine nel caos delle sensazioni che lo incalzano e assediano. Per portare la pittura da una situazione creativa a una «creaturale». Davanti al suo sguardo corpi e natura confluiscono, diventano un unicum. Lo si capisce bene in quel capolavoro che è l’Enfant au chapeau de paille del 1896, proveniente da Los Angeles. È probabilmente il ritratto del figlio del giardiniere dell’hotel sul lago di Annecy dove Cézanne aveva trascorso il mese di agosto di quell’anno. Falda del cappello rotonda e ovale del volto sono forme geometriche pure, ma il vestito del ragazzino, con le sue pieghe verticali, è dipinto come se il corpo fosse nel contempo un paesaggio. Il verde è un verde di frasche e la luce sembra quella riflessa dalle acque del lago.
La battaglia che Cézanne combatte è proprio per realizzare questa compenetrazione. Una battaglia che assumerà toni epici negli ultimi anni con la serie di ritratti al giardiniere Vallier, dipinti nell’atelier a Les Lauves. La sequenza in mostra è impressionante: il vecchio paesano posa nella sua mutezza, con il volto quasi sempre oscurato dal cappello. Le distanze e differenze si annullano: corpo, paesaggio, alberi, terreno e anche cielo si fondono, precipitano uno dentro l’altro costituendosi in blocchi drammatici di colori e di forme. Sono quadri calmi e furiosi allo stesso tempo. Quadri irrisolti, perché per Cézanne la pittura come la natura non conosce punti d’approdo. È evento sempre aperto.