Rabin, the Last Day, in gara alla scorsa Mostra di Venezia, non distribuito in Italia e quasi invisibile in Israele, troppo indigesto per la politica al governo, inaugura (stasera ore 19) una piccola selezione di film di Gitai (fino a domenica, Esther, Kadosh e Kippur) presentati al Maxxi in occasione della mostra.

«Sarebbe stata più stabile oggi la situazione di Israele se Rabin non fosse stato ucciso?». A porre la domanda a Simon Peres, che di Rabin è stato compagno in un cammino politico epocale nel processo di pace tra israeliani e palestinesi, e nella scommessa del cambiamento che poteva comportare in termini di prospettiva storica, politica, sociale nella vita del Paese, è Yael Abecassis, attrice protagonista in molti film di Amos Gitai. E questo dialogo diretto su fondo scuro che apre il film – dichiara da subito il suo dispositivo. Siamo nella «finzione» come garanzia massima e efficace di realtà, tutto questo è accaduto davvero ma ciò che vedremo non ne è la «semplice» ricostruzione.

Rabin, The Last Day è un’ indagine basata sui fatti. Gitai che ha lavorato due anni alle ricerche utilizza molti materiali di archivio e delle news – dove i buchi della realtà, i silenzi, gli omissis vengono riempiti narrativamente. É possibile credere che un servizio segreto potente come il Mossad non sapesse quanto stava accadendo? Che la sicurezza più capillare al mondo abbia avuto tante e tali distrazioni da permettere a un tizio qualunque armato, un ragazzo cresciuto con la testa imbottita di preghiere e propaganda, mitra e scritture, di avvicinarsi al primo ministro e sparargli tre colpi mortali?

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Specie poi in un clima di tensione e di scontro politico aspro come quello seguito agli accordi di Oslo, mentre Rabin era attaccato dalla destra estrema, religiosa e non, dipinto come un neonazista che consegnava il Paese al mostruoso nemico?

C’è un reporter che filma da un tetto e che è sgradito al poliziotto, gli dice di allontanarsi e di riprendere Rabin mentre sale in automobile. «L’atmosfera era strana» ricorda l’uomo nella sua testimonianza. L’esperienza di Zapruder ai tempi dell’omicidio di Kennedy ci ha insegnato quanto le immagini possano essere pericolose e come sia facile incolpare un fuori di testa qualsiasi, pure se il ragazzo in questione appartiene a un’ organizzazione religiosa estremista, quelle protette seppure non palesemente dalla destra del Likud che tornerà al potere con Netanyahu.

Ma non è solo un’inchiesta (e meno che mai un saggio complottista) sulla morte di Rabin questo film: l’omicidio diviene infatti la lente con cui attraversare la politica e la società israeliane, ciò che sostiene anni e anni di conflitto e di occupazione. E stabilisce una cesura, almeno per il regista e per quella parte di Israele che crede nel fondamento democratico, nella promessa fatta a sé stessa alle sue origini di non uccidere mai i propri capi di stato.

Gitai in Israele è tornato con il governo Rabin convinto dell’importanza di quella scommessa di una soluzione seppure spinosa e da costruire del conflitto di cui gli accordi di Oslo firmati tra Arafat e Rabin nel ’93 sembravano un primo passo. Diaspora contro sionismo, democrazia contro oscurantismo, Storia contro mitologia del sacro sono i cardini di un scontro che esige una radicale svolta. Pace o delitto. Il punto di non ritorno di quel 4 novembre del 1995.

Il movimento narrativo procede per confronti e giustapposizioni: «reale» e «messinscena» slittano uno nell’altro. Le testimonianze dopo l’omicidio alla commissione Shamgar, istituita per fare luce sulle eventuali anomalie nella sicurezza: l’ambiguo autista, l’avvocato del governo che decide di insabbiare le testimonianze contro i rabbini che avrebbero lanciato una maledizione di morte a Rabin. Il capo della sicurezza contattato in ritardo e con un piano lacunoso, il comandante della polizia. Gli interrogatori all’assassino, la sua arroganza, la sua determinazione in nome di dio. E quasi in controcampo le tensioni popolari dei mesi precedenti e i politici che le strumentalizzano con lucida determinazione. Sionismo e purezza del Paese. I religiosi e i coloni a cui il Likud ha permesso di moltiplicarsi e che violando ogni trattato occupano anche le terre non di stato, distruggono gli ulivi, minacciano i palestinesi.

Se The Arena of Murder, girato subito dopo la morte di Rabin era un viaggio attraverso Israele alla ricerca degli elementi che si opponevano al cambiamento della sua politica, qui quegli stessi elementi vengono ricostruiti nella distanza dei vent’anni, e al tempo stesso si presentano come immutabili nella società israeliana.
Gli accordi di Oslo sono contro la Torah grida il rabbino prima di lanciare la condanna a morte a Rabin. L’immagine di quest’ultimo che cerca di prendere la parola contro i violenti attacchi della destra del Likud alla Knesset è dolorosa e premonitrice. Non si tratta dunque di un «complotto» anche se Peres nelle prime immagini parla apertamenteoni» in quel momento. E se mai c’è stato è grazie al continuo alimentare la violenza come unica forma di dissenso, alla compattezza di un sistema che non poteva tollerare un «anomalia» che toccava gli interessi più sensibili del Paese.

Ogni film di Gitai interroga costantemente le ragioni della Storia, ma stavolta la necessità si fa più forte perché ciascuno dei protagonisti di questa vicenda esprime una totalità e insieme un frammento del suo cinema. É un film doloroso questo e intimo nonostante la geometria investigativa del suo svolgersi, che mette in discussione tutto senza offrire risposte. Non c’è una soluzione, ma solo una possibilità di consapevolezza. E le immagini sono parte fondante di questa resistenza.