Nel cimitero dei morti senza nome, un angolo di terra ricavato nel camposanto di Lampedusa, non ci saranno i sette migranti annegati nella notte tra sabato e domenica nel Canale di Sicilia: loro non sono mai arrivati nell’isola più a sud d’Europa, neanche da morti. Sono stati inghiottiti dal mare mentre tentavano di aggrapparsi alla gabbia di tonni trainata da un peschereccio tunisino, il Khaled Amir, che voleva pescare pesci e non uomini e per questo ha tagliato le cime, lasciando che gabbia, uomini e pesci andassero alla deriva nelle acque tra la costa africana e Malta, davanti agli occhi di un centinaio di migranti (poi soccorsi dalla capitaneria di porto italiana) che fino a poco prima avevano diviso con loro gli otto metri di un gommone partito dalla Libia.

Avevano abbandonato quella barca malmessa e stracarica perché volevano salvarsi, sperando che il peschereccio li avrebbe tirati su, se non altro per non perdere il pescato. La vita dei tonni, come spiega Mario Genco nel Trattato generale dei pesci e dei cristiani, preoccupa autorità e mondo scientifico da oltre un secolo, e di “genocidio” si cominciò a parlare nel 1895, fino all’abolizione del sistema delle tonnare. Se i migranti perdono la vita, invece, è una “tragedia del mare”, secondo quel lessico protettivo così abusato da media e governi che separa cause ed effetti, fatalità e responsabilità.

Sei anni fa, il 26 maggio 2007, nelle stesse acque altri 27 immigrati rimasero aggrappati alle gabbie dei tonni per tre giorni. Le autorità maltesi, che avevano sorvolato l’area, negarono tutto; fino a quando non si decisero a fornire le coordinate a un pattugliatore della Marina militare italiana, che li individuò e mandò le motovedette. Si salvarono tutti e il loro racconto fu raccapricciante: nei 9 giorni di traversata, col motore in avaria, avevano incrociato pescherecci e navi che si erano rifiutati di caricarli a bordo. I più “sensibili” avevano lanciato loro acqua e cibo. Ma l’anno successivo, il 7 giugno, una dozzina di disperati perse la vita. Un peschereccio ne salvò 13, gli altri sono sepolti nelle acque del Mediterraneo, come i 300 dell’aprile 2011, colati a picco a 30 miglia da Lampedusa; come i 283 naufragati al largo di Portopalo di Capo Passero nella notte di Natale del ’96. Questi episodi li conosciamo, e statisticamente sono poca cosa rispetto a quanto negli ultimi vent’anni succede nel Canale di Sicilia.

In un paio di giorni, tra Sicilia e Calabria sono sbarcate oltre mille persone. Arrivano dalla Libia, il luogo dove si concentrano i mercanti di uomini. Quella Libia dove convergono a migliaia i rifugiati provenienti dall’Africa sub-sahariana, sapendo che nel caos di quei luoghi i controlli sono ormai inesistenti. E ci si imbarca come capita: i gommoni utilizzati per trasportare i migranti sono per la maggior parte mezzi che non faranno ritorno, e per questo vecchi, da rottamare e spesso senza scafisti a bordo, con al timone persone frettolosamente istruite sulla traiettoria da seguire.

Anche ieri gli sbarchi sono andati avanti e in serata un barcone con 200 eritrei ha lanciato un Sos davanti alle coste di Tripoli. A Lampedusa il centro d’accoglienza – ormai depotenziato – ospita quasi mille persone, quattro volte in più rispetto alla sua capienza. La struttura di contrada Imbriacola nel settembre 2011 – l’anno degli sbarchi senza fine dalla Tunisia, durante la cosiddetta Primavera araba – fu data alle fiamme da un esasperato gruppo di maghrebini, arrivato sull’isola tre mesi prima. Si salvò un’ala dell’edificio, quella tutt’ora utilizzata; l’altra non è mai stata restaurata, perché secondo gli “oroscopi” del Viminale l’emergenza non si sarebbe ripetuta. Tra le bizzarre direttive del ministero dell’Interno c’è quella che vieta l’utilizzo di letti a castello, ritenuti pericolosi. Così gli ospiti dormono sotto i letti e negli spazi liberi sul pavimento. Il sindaco di Lampedusa, Giusy Nicolini, ha verso gli immigrati un’attenzione che mancava del tutto ai suoi predecessori – tutti concentrati sui danni al turismo – e ieri ha fatto un pacato appello per accelerare il trasferimento delle persone: «Non possono vivere in queste condizioni». Prima di lei i sindaci dicevano «non possiamo vivere in queste condizioni».