Se è vero che è buona prassi tacere di ciò di cui non si può parlare, il silenzio sembrerebbe scongiurare ulteriori postille al fin troppo citato suggerimento wittgensteiniano. Eppure, commentarlo, definirlo, sancirne lo statuto attraverso parole che mentre lo affermano lo negano è un tentativo ricorrente: celebre l’impasse cui ci costrinse a suo tempo John Cage, di cui a distanza di sessant’anni dalla prima pubblicazione, Il Saggiatore ripropone il Silenzio (traduzione di Giancarlo Carlotti, con una prefazione di Kyle Gann, pp. 320, e 42,00), uno degli argomenti, non il solo per quanto importante, affrontati nei ventitré scritti – saggi, conferenze e articoli redatti tra il ’37 e il ’61 – dalla «forma insolita», scrive Cage, perché adattata ai «metodi compositivi analoghi a quelli che usavo per la musica».
I temi spaziano dalla danza, alle discipline orientali, all’arte, ai metodi compositivi, ai brevi interludi o lacerti di vita privata. È un volume, questo, il cui «soggetto silenzio» ha influenzato, dalla tempistica della prima pubblicazione nel ’61 in avanti, le idee e la prassi artistica di intere generazioni, alimentando il clima avanguardistico e rivoluzionando non solo la percezione e la composizione stessa della musica ma anche ogni altra forma artistica.

Dopo il niente il qualcosa
La sua influenza era immediatamente avvertibile nell’arte che va dagli anni Sessanta agli Ottanta, mentre oggi sembra sopravvivere più come mitologema, fatalmente e inesorabilmente ingurgitato dalla tradizione (destino condiviso, del resto, da tutte le avanguardie) e penetrato così in profondità nell’humus storico da risultare tanto diffusa quanto inafferrabile. Il «soggetto silenzio», dunque, pare sopravvivere più che altro nelle citazioni e in quel commento inesausto che sembra ricordarci la nostra costitutiva incapacità di accettarlo per quello che è (o non è), portando notizie della nostra coazione a riempire il vuoto, a cercare intenzioni nell’initenzionale e a proiettare sull’almeno apparente nulla qualcosa, purché sia.

Paradossalmente, questa incapacità di tacere sul silenzio saturandolo di commenti, sembra doppiarne lo statuto ontologico, non solo perché, come scrive Cage, «non esiste una cosa come il silenzio» – affermazione, come è noto, derivata dalla sua esperienza all’interno della camera anecoica dell’Università di Harvard in cui, nonostante e grazie alla sottrazione del suono dall’ambiente, riusciva a udire i rumori provenienti dal suo corpo – ma anche perché, come sostiene nella Conferenza sul niente contenuta nel volume, se «quel che serve a noi è il silenzio al silenzio serve che io continui a parlare». È questa la contraddizione inevitabile cui sembra portarci quel «non ho nulla da dire (eppure) lo sto dicendo» che ritorna anche nel titolo dell’opera Not Wanting to Say Anything Abaut Marcel (1969) dove Cage aveva usato le parole di Jasper Johns per commentare (o non commentare) la morte del comune amico Marcel Duchamp e dove, ancora una volta (con buona pace di Wittgenstein), non si tace di ciò di cui non si può parlare.

Non a caso alla Conferenza sul niente segue la Conferenza su qualcosa, in cui Cage afferma «come qualcosa e niente non siano opposti ma abbiano bisogno l’uno dell’altro»: da questo illogico accostamento deriva la necessità di ragionare fuori dalle dicotomie del pensiero occidentale per abbracciare «la coesistenza dei dissimili», dove si rende possibile l’esistenza simultanea di due opposti che non bloccano il senso ma generano significazioni altre dando vita a un mondo paradossale, ma mai contradditorio.
Ispirandosi ai White Paintings dell’amico Rauschenberg, Cage scrive riferendosi all’ormai mitizzato 4,33 – la composizione in tre movimenti, datata 1952, che prescrive al solista (di qualsivoglia strumento) di non suonare per tutta la durata del brano: «A tutti gli interessati: / I quadri bianchi sono arrivati/per primi; il mio brano silenzioso/più tardi». Quei quadri bianchi (che tuttavia non erano mai vuoti) spesso descritti come piste di atterraggio per la polvere, capaci di «cattura(re) tutto quello che cadeva sopra» e, con esso, l’accadere del tempo e delle cose. Allo stesso modo, 4,33 provoca nello spettatore quel crollo delle aspettative conseguente al fatto di trovare il nulla invece di qualcosa, per poi scoprire che anche quel nulla non esiste. Il concetto di silenzio sembra agire qui come una cornice (frame la chiama altrove Kyle Gann) che tuttavia non blocca né ostruisce la realtà ma la fa vedere in trasparenza, lasciando scorrere l’accadere dei suoni – di tutti i suoni – e del mondo circostante. Presenza invisibile che «indica» senza mai costringere lo sguardo verso una direzione, una cornice trasparente che «racchiude» senza mai paralizzare e ci fa vedere il mondo per quel che è: una presenza mobile e inafferrabile.

Guardare attraverso
Il concetto di trasparenza trova una sorta di corrispettivo artistico nella già citata di Not Wanting to Say Anything About Marcel, che consiste di serigrafie realizzate su lastre trasparenti poste una dietro l’altra su una base di legno, dove si materializza l’incontro paradossale tra visibile e invisibile, tra silenzio e suono e dove «ogni qualcosa è eco di niente», e si ripropone in The First Meeting of the Satie Society, opera incompiuta alla quale Cage lavorò fino alla morte e che può essere letta come una sorta di summa, di lascito spirituale degli interessi dell’artista. Concepita come «libro regalo» per Eric Satie e realizzata su fogli di carta trasparente con illustrazioni donate da vari artisti tra cui Johns, Rauschenberg, Merce Cunningham e, indirettamente, Duchamp, questa opera esalta la trasparenza grazie a quel «modo di stampare per cui riesci a guardare attraverso il libro».

Dancing around the Bride
Nella sua cornice si trova riunito quel gruppo di artisti formato da Johns, Cunningham, Rauschenberg, Duchamp e Cage, la cui collaborazione insieme all’intrecciarsi delle loro vite costituì il cuore della mostra Dancing around the Bride allestita al Museum of Art di Philadelphia fra il 2012 e il 2013, dove vennero esposti i sette elementi di scena trasparenti ideati nel ‘68 da Jasper Johns per una performance di Cunningham che si rifanno a quella misteriosa e fondamentale opera di Duchamp, La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche (Il Grande Vetro) (1915-1923). Sollecitandoci per primo all’«esperienza di poter guardare dal vetro e vedere il resto del mondo», Duchamp ha implicitamente fornito, a Cage prima e ai suoi esegeti poi, il modello dell’artista del quale non si vuole dire niente e però si continua a dire.