Dalla violenza delle colonie penali che diedero origine all’Australia in La vita sommersa di Gould alle nefandezze dei campi di prigionia giapponesi durante la seconda guerra mondiale in La strada stretta per il profondo Nord, passando per la protervia dei media in La donna sbagliata all’atteggiamento inqualificabile dei bianchi verso gli aborigeni in Solo per desiderio, Flanagan non ha mai esitato a denunciare nei suoi romanzi gli aspetti più oscuri (e meno gratificanti) della storia passata e presente, senza tuttavia forzare i lettori al proprio punto di vista.

Nel suo ultimo lavoro, Prima persona, si rifà alla propria esperienza giovanile di ghost writer del maggior truffatore australiano del Novecento, John Friedrich, per raccontare una storia che confronta l’ambizione per il potere e quella per il successo. Con toni comici nella prima parte del romanzo, che scivolano verso il thriller e l’horror nella seconda, Flanagan smaschera il «feticismo» che caratterizza memoir e autofiction, e ribadisce la sua fede nel romanzo come atto sovversivo, che conduce il lettore in una sfera privata, dove il potere non ha accesso.

In «Prima persona», tornano temi come il rapporto tra menzogna e verità, la frode, la frammentazione dell’Io, che si ritrovano nella sua intera opera. Ne possiamo dedurre che tutto il suo lavoro sia stato influenzato dalla sua esperienza giovanile di ghost writer per il più famoso truffatore australiano del ventesimo secolo?
Forse, ma in modo del tutto inconscio. Del resto, meno ci si pretende consapevoli, più si può lasciare spazio all’invenzione e alla fantasia. Credo che gli scrittori debbano necessariamente essere un po’ autistici nei confronti di quanto hanno già fatto: comunque, per quanto mi riguarda, in ogni nuovo romanzo cerco di distruggere quel che ho scritto prima, di non tornare mai sugli stessi argomenti o usare la stessa voce,e questo sforzo mi auguro conferisca maggior sincerità a ciò che scrivo.

Comunque, mentre lavorava come ghost writer lei stava già scrivendo il suo primo romanzo, «Gli ultimi minuti di vita di una guida fluviale». L’esperienza con Friedrich ha cambiato in qualche modo il suo avvicinamento alla narrativa?
Sì, mi ha insegnato che bisogna imparare a trovare dentro di noi anche quel che non ci appartiene. Mentre scrivevo il suo memoir, Friedrich si è ucciso, e io mi sono trovato a diventare lo scrittore fantasma di un fantasma: dovevo scrivere con la sua voce le memorie di qualcuno che non mi si era mai confidato, e non sapevo come fare. Ci sono voluti sei romanzi perché ne diventassi capace. Il memoir di Friedrich che scrissi (e che fu anche pubblicato) è un libro orribile, ma lavorandoci ho imparato come uno scrittore possa adottare la voce di un personaggio che non gli somiglia affatto e conferirgli virtù o vizi, sentimenti a lui totalmente estranei, esprimendoli, è questo il punto, con assoluta convinzione e sincerità. Dicono che il mio primo romanzo fosse autobiografico, io direi piuttosto che la mia prima autobiografia era un romanzo, l’invenzione della vita di qualcun altro, il che mi ha reso molto sospettoso nei confronti dei memoir.

E perché ha aspettato tanto per raccontare questa storia?
Perché il mondo è cambiato, e quella storia – la vicenda di un truffatore nazistoide che vuole ricreare il mondo a sua immagine e somiglianza – mi sembrava ricordasse quanto oggi sta accadendo in molti paesi, sembrava emergere proprio dall’oscurità in cui oggi ci troviamo. Ci vuole tempo per riflettere sulla propria vita e trovarvi qualche significato: sono sempre stato affascinato da come la letteratura ci mostra che nessuno di noi è una sola persona. Mi piace esaminare la frammentazione delle nostre soggettività, tanto più in quanto questa epoca tende a costringerci all’interno di piccole scatole, dietro alti muri divisori, ridotti a unità incompatibili. La letteratura ci ricorda che ognuno di noi può trovare se stesso negli altri.

Nei suoi libri lei non è mai tenero con l’Australia e ancor meno con la Tasmania dalla quale proviene; ma verso questa regione il suo rapporto è più ambiguo. Come lo descriverebbe?
Ho passato tutta la vita a cercare di capirlo e non ci sono riuscito. La mia terra è la mia famiglia, i miei amici, le persone che amo, certo non è questione di orgoglio nazionale. Ma il compito di uno scrittore non è amare o odiare il proprio luogo d’origine, è scriverne onestamente. A volte i luoghi sono personaggi con un ruolo significativo: Sidney lo è, per esempio, nel mio La donna sbagliata, perché le do la valenza di metropoli esemplare della contemporaneità dopo l’11 settembre. Non è, peraltro, negli autori australiani che ho trovato la mia Tasmania, ma in Kafka, Borges, Cortázar, Calvino. Ogni scrittore appartiene tanto al suo paese quanto all’universo delle lettere e deve essere fedele a entrambi, persuadersi di appartenere all’uno o all’altro è un terribile errore: non servono radici, servono ali. La mentalità australiana è stata colonizzata fino a tempi molto recenti e possiede una vera letteratura solo a partire dagli anni Settanta del Novecento: ha solo quarant’anni anni!

Per la verità, direi che ha più di un secolo: lei non metterebbe Henry Lawson e l’epopea tardo ottocentesca del bush nella casa della letteratura?
Lawson diceva che chiunque volesse diventare scrittore in Australia avrebbe fatto meglio a puntarsi una pistola alla tempia: lui stesso finì povero e alcolizzato. La società australiana è molto conformista e chi non si adatta è guardato con sospetto. Per quanto popolari, in Australia gli scrittori non sono rispettati, non hanno alcun ruolo nell’establishment culturale. La mentalità australiana è molto diversa da quella europea, grazie al trauma della sua discesa da una società schiavista (perché questo era la colonia penale), che ha cercato di cancellare 60000 anni di tradizioni indigene. Secondo un nostro comodo mito, la straordinaria cultura indigena sarebbe andata distrutta dopo un’invasione terrificante. Non è vero. La cultura indigena sopravvive, ma noi preferiamo fingere che non esista più. C’è stato un terribile silenzio in Australia sul sistema schiavista e sui suoi popoli indigeni: da noi in Tasmania quel silenzio grida ogni giorno vendetta e riporta a galla il passato: allora bisogna dargli un nome o si finisce per affogare.