Nella vita può cambiare qualunque cosa – si sente dire – tranne il tifo per la propria squadra di calcio. Ciò che è cambiato però è proprio il calcio. Al centro c’è il calciatore (la giovane promessa o il titolare affermato) sempre più inteso come investimento, come bene economico. Il «bene-calciatore» è la gallina dalle uova d’oro a beneficio di variegate figure (lo scopritore di talenti, il mediatore, il procuratore, eccetera) che muovono il business del pallone. Nel quale ci entra di tutto, compresa la grancassa dell’apparato mediatico. Il calcio di quest’ultimo biennio, tenuto sotto scacco dal perdurare del virus pandemico, ha accelerato il palesarsi dei bilanci in passivo di grosse società le quali, per risanarli, tendono a far fronte comune. Come nel caso dei 12 club europei ideatori dell’elitaria Superlega, momentaneamente naufragata. Da un progetto controverso possono scaturire esiti in grado di regolamentare il sistema.

Sicché non è infondato supporre che quei club, peraltro sanzionabili, favoriscano in modo inconsapevole la clonazione di un calcio «sostenibile», per usare un termine caro agli ambientalisti. Al di là delle congetture che si rivelano un esercizio fine a sé stesso, valori quali competitività, passione sportiva, attaccamento alla bandiera, andrebbero riveduti e aggiornati. Al tifoso basta l’annuncio del nome di grido, di un demiurgo del pallone come José Mourinho alla Roma, per ravvivare ardori latenti e, all’istante, metabolizzare il tutto. La domanda che ci si pone è la seguente: esiste un aspetto di questo calcio, inflazionato e snaturato, capace ancora di stupire?

Partiamo da lontano, rivedendoci ragazzi alle prese con dei vocaboli che colpivano la nostra immaginazione nello studio del latino e della mitologia, materie base nelle medie della pre-riforma. All’inizio di quel percorso scolastico ritenevamo – e faremo sorridere – che vocaboli latini quali Juventus e Inter, e Atalanta (figura mitologica dedita alla caccia) fossero stati mutuati dall’album delle figurine delle squadre di calcio. Ovviamente i soci fondatori di quelle squadre, per sceglierne i nomi, erano ricorsi ad altro. Ebbene, nell’universo calcio dove persino i regolamenti sono in divenire, con difformità evidenti fra le diverse categorie (il gol è gol se nel campo c’è la Var, mentre se manca non lo è), nessuno si stupisce per dei nomi antichi che si perpetuano nella nomenclatura sportiva del Ventunesimo secolo e che circolano come sempre è stato. Ma qualcuno si stupirebbe se una società calcistica, per rinnovarne l’immagine screditata, decidesse di cambiare nome alla propria squadra? Conservando sprazzi di meraviglia, in questo tempo di disincanto dove l’inconsueto equivale all’ordinario, ci terremo stretto quel che resta del calcio.