Alcuni filosofi antichi hanno paragonato il mondo a un grande animale; alcuni moderni, dell’epoca dei Lumi e del XIX secolo, vi hanno opposto energicamente il paragone con la macchina. Nessuno oggi si avventurerebbe su questo terreno. L’ipotesi di un Dio a volte sembra capace di superare entrambe le difficoltà, ma si limita a peggiorarle con il mistero totale e impenetrabile a cui impone di sottomettersi.

Se non vogliamo né dissipare il mistero né imputarlo a qualche altro sacro sovrano, possiamo cercare di sfuggire al dilemma proponendo ciò che il nostro tempo non solo suggerisce, ma ci impone di considerare: il mondo non è un animale né una macchina – siamo noi stessi. È ciò che l’umanità fa – o disfa – di esso al tempo stesso in cui fa – o disfa – se stessa.

LA «MONDIALIZZAZIONE» non è solo l’effetto dello sviluppo tecno-economico: è un riassetto, una rimessa in gioco del mondo stesso. Forse è la fine di un «mondo», comunque lo si intenda, ma anche la nascita di qualcosa di diverso da un mondo, per cui non abbiamo il nome.

La questione della pelle potrebbe essere la più idonea a illuminarci sul mondo umano dal momento che ormai non possiamo che considerarlo tale: né animale né macchina, ma mondo degli uomini privo di qualsiasi oltre-mondo (o altro mondo) rispetto al quale possa essere commisurato, situato e ricevere il suo senso di «mondo». Perché il senso di un «mondo» è proprio di avere senso, cioè di consentire la circolazione, l’economia, il funzionamento di punti di riferimento grazie ai quali tutto ciò che è in questo mondo è anche ciò che lo costituisce e gli dà vita.
Come potrebbe il mondo avere una pelle se non deve sentire, agire e significare al di fuori di sé? Ma come potrebbe non sentire, agire o significare se è come un mondo deve essere? È questa la domanda a cui sto cercando di rispondere e per farlo devo anzitutto considerare più attentamente cosa sia una pelle.

Jean Luc Nancy

La pelle non avvolge un insieme di organi: espande la presenza al mondo che questi organi conservano. Conosciamo tutti le immagini dei cosiddetti «spellati» che mostrano la disposizione di muscoli, tendini, vasi e nervi di un corpo cui è stata tolta o sollevata la pelle (talora è lo spellato stesso che ne tiene sollevato un pezzo). Si tratta di immagini spesso spiacevoli da guardare. Nietzsche sostiene che è la pelle a rendere sopportabile la visione ripugnante dell’organismo.

Diciamo che non si tratta di rendere sopportabile – dunque di mascherare – ma di rendere presentabile, vale a dire visibile e riconoscibile, ciò che altrimenti sfugge nell’intrico di organi, tessuti, funzioni il cui insieme ci resta incomprensibile oppure limitato alla conservazione del corpo (si tratta dello sguardo fisiologico e medico). Ma la conservazione dell’organismo non esaurisce la presenza di un individuo.

LA PELLE STESSA è un organo – per il fisiologo – ma un organo che eccede l’organicità. Giocando con la famosa frase di Artaud, potremmo dire che è l’organo del corpo senza organo, l’organo o il luogo in cui un corpo si presenta come tale. Lo fa esponendo il corpo agli altri corpi. La pelle si fa vedere, toccare, ascoltare, respirare e assaporare. Cosa sia la pelle, lo sappiamo dalle strette di mano, dal bacio, dalla visione di un mento o di un’andatura.

Le pelli non sono tra loro impermeabili, sono porose per definizione a un tempo organica e metafisica. Condividono i loro segreti, si rendono sensibili l’una all’altra. Accartoccio un’erba: il suo profumo si lascia inalare mentre tra le dita l’erba sgualcita si decompone.
Possiamo leggere la vera natura e il vero ruolo della pelle nel famoso mito di Marsia, il satiro suonatore di flauto che osa sfidare Apollo, il dio maestro della lira. Adirato, il dio fa scuoiare il satiro; il trionfo della lira è assicurato. Ma ecco che la pelle di Marsia, appesa a un albero dai suoi carnefici, viene sollevata dalla brezza e risuona con accenti melodiosi.

Così, alla fine, è il respiro, l’impulso spontaneo a prevalere sulla vibrazione regolata delle corde. La pelle non è luogo di calcolo o misura: è luogo di passaggio, di transito e trasporto, di traffico e transazione. Sotto ogni aspetto è la risonanza potente e fragile di tutto ciò che suscita una forma o un grado di esistenza.
In definitiva, il mondo è la co-appartenenza – né animale né macchinica – di tutto quanto rinvia a tutto, come la respirazione, la muta di un serpente o la reazione di una fusione termonucleare.

IL MONDO È TUTTO CIÒ che succede tra noi, vale a dire anzitutto noi stessi e tutto ciò che ci capita, a cui giungono i nostri contatti, gli sguardi, i respiri, i movimenti; attraverso il rinvio da pelle a pelle – da quella dell’insetto che cammina sul mio schermo, a quella del personaggio di Hieronymus Bosch riprodotto nei cristalli dello schermo – da vicino a vicino, da sorpresa a imminenza, da fugace a immemoriale si raggiunge inconsapevolmente l’intera attualità del mondo: l’atto della sua esistenza.

Un atto fatto di opere e disastri, splendori, orrori e insignificanze. Fino a quando resta un atto umano, è un sorgere senza fine in cui consiste tutto il suo senso e tutto il senso che c’è: un senso che non smette di passare da pelle a pelle, che mai nulla può avvolgere.
Ma se diventa l’atto di un animale o di una macchina, di un’entità avvolta in un’autonomia capace di dare ragione di sé, un grande coagulo di funzioni e organi, allora l’atto si perde, implode, soffoca come una pelle i cui pori siano sigillati da uno stucco di autosufficienza organica o tecnica.

Traduzione di Michelina Borsari