Mettiamola così: sarà la Storia a dire ai posteri se la pandemia del covid avrà segnato il cambio di rotta. Nell’economia, nel modello sociale, di produzione e di consumo, nell’uso del territorio, nel dare centralità a quei beni comuni, sanità e istruzione, che misurano la reale qualità della vita delle persone.

Intanto, la cronaca lascia presagire assai poco di buono. Ripete percorsi già visti, batte sentieri periferici. Proseguendo in questa direzione la normalità di prima prevarrà facilmente su ogni strategia di cambiamento. Che infatti neppure s’intravvede. Ancora una volta la politica gioca al ribasso, lo sguardo corto sull’immediato, l’assenza di una visione d’insieme, per una via d’uscita che sia strategica. Lo ha fatto nel sorgere della pandemia, trascurandola, o addirittura negandola, intervenendo tardi, mancando di un coordinamento, di una cooperazione. E l’aveva fatto ancor prima, facendosi trovare impreparata dinanzi a un evento messo nel conto dalla scienza, già verificatosi, pur in altre forme, nell’ultimo ventennio in diverse parti del pianeta.

Così, la pandemia ha agito globalmente, la politica ha risposto rinchiusa nel cortile di casa. Da nazione contro nazione, e per quel che ci riguarda persino da regione contro regione. Si è retto, fin qui almeno, per la trama ancora viva, nelle strutture e negli operatori, di quel che resta di un sistema sanitario nazionale, di impianto universalistico, unico nel suo genere, sottoposto negli ultimi decenni al quotidiano smantellamento privatistico operato dai diversi governi che si sono succeduti.

Oggi il covid lascia sul terreno la sua scia lunga di dolore, di sofferenze, di morti, di paure e di incertezze. Verso il contagio che può tornare prepotente, verso il lavoro perduto, verso diseguaglianze che ha accresciuto. Su questo terreno, come si muovono, e verso dove, le classi dirigenti del Paese? E’ una domanda che non trascura i risultati ottenuti, nella dura contesa europea di questi giorni e nel percorso intrapreso per primi nei mesi scorsi, nel colmo del contagio. Ed è una domanda che non intende certo mettere tutti sul medesimo piano. La prevalente natura sovranista della destra italiana, e quella dell’impresa uber alles di certa Confindustria, marciano con lo sguardo rivolto all’indietro. La domanda riguarda quest’altro campo, e la sinistra. C’è una strada da costruire, oltre l’emergenza?

Che certo è necessaria, obbligata, ma perdente, senza una prospettiva che vada oltre essa, e che sia messa in atto ora, non dopo. O si pensa davvero che la prospettiva magicamente si apra sul terreno di una nuova legge elettorale? Confesso, intera, una delusione mista a sgomento. E sento, purtroppo, di essere in una crescente compagnia. Alle primarie del Partito Democratico con convinzione ho sostenuto Nicola Zingaretti, nel segno di una rigenerazione di quel partito e, con esso, dell’intero campo del centrosinistra, largo, plurale, nuovo. Oltre le consuete autoreferenzialità e gli schieramenti precostituiti. Per una politica, la sua autonomia, il suo disegno di trasformazione sociale, che pure s’intravvedeva, dopo la sbornia dell’anti-politica e la battuta d’arresto del sovranismo antieuropeista.

L’associazionismo solidale, il movimento delle sardine, l’afflato ecologista di tanto protagonismo giovanile – che pure si è tradotto in diversi paesi europei in una sfida alle destre anche sul piano elettorale – indicavano una direzione, aprivano una strada. Era, ed è, compito del soggetto politico principale raccogliere queste spinte, dare loro una forma nuova, e contenuti avanzati, aprendosi, mettendosi in discussione per puntare in alto. La sola gestione dell’emergenza, l’illusione ottica che la svolta consista nella riforma elettorale, il bon ton del dibattito interno, come la ricerca di un equilibrio troppe volte fine a se stesso con gli alleati, sono tutte risorse utili all’ordinaria amministrazione. Ma per passare dalla cronaca corrente alla Storia che segna il cambio di rotta, non solo non bastano, possono risultare perdenti.