Anche alla Quinzaine si è celebrato un compleanno con restauro, quello di The Texas Chainsaw Massacre (in Italia, Non aprite quella porta) atterrato alla Croisette quarant’anni fa (trentanove per essere esatti, uno dopo l’uscita Usa), dall’allora inesistente polo cinematografico di Austin. Era presente alla proiezione di giovedì sera il regista plurisettantenne Tobe Hooper, che in genere non ama viaggiare e ancora meno pontificare sul suo lavoro.

Ci ha pensato, purtroppo, uno dei giurati del concorso del festival di quest’anno, Nicolas Winding Refn, invitato a presentare il film. Pessima idea quella del direttore della Quinzaine, Edouard Waintrop, visto che non solo il regista danese non aveva nulla da dire sul capolavoro di Hooper (gli mancano sia la conoscenza che l’eloquenza di Tarantino), ma il suo cinema freddo, mortifero, tutto shock costruiti a tavolino, non potrebbe essere più lontano dalla visceralità, dalla visionarietà selvaggia e dalla forza d’urto di quello di Hooper.

A partire dalla scritta gialla (come quella di Star Wars!) che precede l’inizio dell’azione, e in cui si avvisa il pubblico che il film è ispirato a fatti realmente accaduti (una trovata pubblicitaria di Hooper e soci…), quarant’anni dopo, Texas Chainsaw Massacre rimane un film assoluto, strano anche nella mitica golden age dell’horror americano, a cavallo tra anni sessanta e settanta. E un film la cui influenza politica e iconografica è visibilissima ancora oggi. Non solo in un discendente naturale dell’horror pittorico/premetallaro di Hooper, come Rob Zombie, ma anche in prodotti più mainstream, come per esempio la recente serie HBO True Detective.

Realizzato nel 1974, nei dintorni di Austin, con un budget di soli trecentomila dollari e girato in 16mm, su pellicola invertibile (scelta low cost: si stampa direttamente, senza passare attraverso un negativo), Texas Chainsaw è stato presentato a Cannes in una versione digitale restaurata 4K, che aveva avuto la sua prima il marzo scorso, nella città del regista texano (al festival Sxsw), e che uscirà nelle sale Usa quest’estate. Rispetto ai decrepiti 16mm che hanno circolato per anni, ai 35 gonfiati fino allo stremo, alle mutilate versioni Vhs (era stato bandito in paesi come Inghilterra e Australia) ma anche a quelle distribuite in Dvd, si tratta di una visione di «qualità superiore» –l’ immagine digitalmente ripulita, il suono – dal mono originale (una colonna stranissima, a base di rumori ottenuti da un cocktail di strumenti rotti, bacinelle d’alluminio piene d’acqua, e dagli ululati di Hooper dentro a un tubo di cartone) – riconfigurato in dolby 7.1.

Il regista ha partecipato al restauro e, in varie interviste se ne è detto molto contento anche perché, digitalmente, «ha potuto rendere visibili cose che l’emulsione poco sensibile della pellicola di allora non aveva potuto catturare». È vero che nell’inquadratura c’è piu luce ed effettivamente l’horror indicibile della famigliola cannibale si «vede» di più: le elaborate architettura di ossa, il set splatter che riprende surrealmente gli idilliaci scenari delle sitcom, la magnifica, interminabile, sequenza delle fuga notturna della ragazza nel bosco, coperta di sangue, mentre è inseguita da Leatherface che brandisce la sega elettrice come se ne fosse trascinato. Come per altri film di quel periodo restaurati digitalmente (Cruising è un esempio) ogni tanto viene il dubbio che ci sia la luce sia diventata troppa, che il buio creato dai limiti di budget (o stock) facesse più paura. Ma non importa, perché il brivido di quest’urlo di cinema è indiscutibilmente sublime.