Cultura

Quel «basso continuo» di una comunità plurale ai piedi del Vesuvio

Quel «basso continuo» di una comunità plurale ai piedi del Vesuvio

Narrativa italiana Intervista a Maria Antonietta Vito a partire dal romanzo «La ferita originaria», edito da Castelvecchi. «Le donne, quelle anziane, Sofia e Filomena e altre sono figure di "escluse" eppure s’interrogano sul dolore, la sventura, il destino, con un linguaggio impastato di dialetto»

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 9 dicembre 2023

La ferita originaria (Castelvecchi, pp. 468, euro 25), l’ultimo romanzo di Maria Antonietta Vito, parte dalla narrazione della vita del piccolo Tanino, in un borgo imprecisato ai piedi del Vesuvio, e in un tempo ugualmente non specificato, ma dal contesto si capirà che l’intera trama del racconto si dipana in un arco temporale che va all’incirca dagli anni ’20 agli anni ’60: in mezzo c’è la seconda guerra mondiale.

Un romanzo d’invenzione, con una base di verosimiglianza e dal ritmo circolare, in cui alcuni temi tornano, alcuni destini, in forme diverse, si ripetono: ne viene fuori un gioco, quasi musicale, di riprese e varianti.
La mia scelta è caduta sulla coralità, sulla pluralità delle voci e dei punti di vista, perché avverto come superato l’intimismo romantico, il personaggio unico e solo, ripiegato su sé stesso, in un ininterrotto soliloquio, nel quale pare che il mondo attorno a lui scompaia, o viva soltanto in funzione dei suoi pensieri e delle sue emozioni. Ma sono rifuggita anche dal modello opposto, quello della «falsa oggettività», per cui conterebbe solo l’intreccio, la fiction, come si direbbe oggi, mentre lo sguardo sulla realtà, il vissuto interiore d’ogni personaggio sarebbe irrilevante nello svolgimento dei fatti. Credo che la scrittura debba sforzarsi di far toccare con mano questa circolarità tra i fatti e i pensieri.

«La ferita originaria» poggia sulla prevalenza di figure femminili e ricalca, anche nella struttura, la tragedia classica.
Si modella sulla tragedia greca. Le donne, certo, nell’insieme fanno coro, ma poi ognuna è un personaggio a sé, dotata di una sua precisa individualità. I nomi stessi sono fortemente simbolici e rimandano alla cultura greca, ecco perché il libro può essere letto come una «fiaba metafisica», qualcosa che cerca di dire altro, ed oltre l’orizzonte dei fatti puri e semplici. C’è Sofia, la sapienza, sapienza di vita, di forte umore popolare, ma per nulla superficiale. Filomena, in cui c’è la philia, l’amicizia, ma anche il melos, il canto. Nunziata, ossia l’Annunciata, l’innocente ingiustamente sacrificata, ma anche colei che riceve la vita come una sorta di miracolo, e tuttavia va incontro alla catastrofe.

La sofferenza che non ha parole per esprimersi, fonte di follia, s’incarna nel personaggio di Gaetano, ma lambisce anche gli altri, e investe a pieno Nunziata; in termini musicali, la pazzia costituisce il «basso continuo» di tutta la storia. Questa sua presenza, pervasiva, non rischia di negare la responsabilità dei personaggi?
In un certo senso nel romanzo il tema della responsabilità è persino esasperato; nel pensiero arcaico che sostiene la mentalità di alcuni personaggi è ancora sentito con forza il nesso tra colpa e malattia. Solo la scienza ha potuto scalfirlo, ma non eliminarlo del tutto. Sulla malattia mentale, poi, lo stigma sociale è forte persino oggi, qui in occidente: essa va nascosta, e la lotta contro il male, contro il dolore, è relegata ad evento privato. Sullo sfondo arcaico in cui si muovono i personaggi, ci si libera dalla malattia, si guarisce, solo identificando la colpa ed estirpandola attraverso atti di tipo o esorcistico o penitenziale.

Un altro tema è quello dell’insegnamento, il ruolo che la cultura ha nel condizionare il destino di un individuo. Così come c’è, nel rapporto tra maestro e alunno, una sorta di paternità simbolica, attraverso una pratica educativa maieutica, fedele al modello socratico: significativo il cenno alla figura di Danilo Dolci e al suo lavoro, politico ed educativo, in Sicilia.
La cultura gioca un ruolo importante anche in figure che, in apparenza, sono lontane. Mi riferisco alle donne, quelle anziane, semianalfabete, Sofia e Filomena, ma anche Amalia, Lucia, Nunziata: tutte figure di «escluse», sia in termini sociali che esistenziali, «scarti», potremmo definirle, ma dotate di una capacità di pensare, d’interrogarsi sul dolore, sulla sventura, sul destino, con un linguaggio umile, impastato di dialetto, che nulla toglie, anzi esalta ancor più il rigore dell’analisi della realtà. Poi, certo, c’è la cultura ufficiale, quella che passa attraverso la scuola.

Vi sono anche degli squarci di leggerezza, d’ironia, quasi di farsa. Che senso hanno in un contesto di racconto tragico?
Tragedia e farsa sono approcci alla vita che non solo si alternano, ma coesistono nella realtà delle nostre vite, fatte di luci e di ombre. Così nel romanzo: la povertà culturale di certi contesti, familiari e ambientali, è il grembo da cui nascono queste storie. Il romanzo esprime fedeltà al reale, che è complesso e non si lascia imbrigliare in una soluzione definitiva, perciò la conclusione delle storie non può che essere «aperta».

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento