Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 i tank dell’esercito popolare procedevano a obbedire all’ordine giunto dal Partito: la piazza Tiananmen, con gli studenti da giorni accampati in segno di protesta, andava sgomberata. Operazione effettuata e riuscita. Alle 6 del mattino la piazza era stata «liberata». L’alba del 4 giugno era pronta ad accogliere una Cina diversa, ferita a tal punto in profondità, da dimenticare l’origine di tutto. Il patto di Deng Xiaoping avrebbe trionfato, aprendo un’epoca nuova: diventerete ricchi, ma non vi occuperete mai più di politica. #64, come il 4 giugno, #25Tam, come i venticinque anni da Tiananmen e #35maggio l’hashtag e l’espressione coniata dallo scrittore Yu Hua e usata oggi da molti altri cinesi, per ricordare quel 4 giugno senza essere bloccati dalla censura della rete cinese.

Il Grande Firewall – il blocco che trasforma l’internet cinese in una grande intranet locale – nei giorni che precedono quella data si arma di attenzione certosina; senza tremare, le mani di migliaia di censori bloccano qualsiasi contenuto che si possa considerare «sensitive», sbagliato, inaccettabile, impossibile da essere diffuso. Figurarsi nella vita vera.

Nel 2009 a Wuhan, durante un pranzo che precedeva una lezione sul giornalismo indipendente (si parlava di Indymedia, in Cina), al tavolo con alcuni studenti, venne fuori quella data. Le parole si fecero più sospirate, sguardi andavano a destra e a sinistra, ad assicurarsi di non essere ascoltati. Si chiama oblio, amnesia di massa, e più semplicemente, paura. Ancora oggi, non è tanto pericoloso, quanto sospetto, parlare di quella data in pubblico. Alcuni anni prima, a Shanghai, il 4 giugno, nel corridoio di un edificio che ospitava studi di web designer, Liu parlava, fino a quando non fece notare lo strano silenzio. Di solito quegli androni, i corridoi, le scale e piccoli magazzini erano rumorosi. «Oggi è una giornata particolare», disse, «è il 4 giugno».

Tutti sanno, tutti ricordano, almeno chi ha una certa età. Molti c’erano; se non fosse successo in Cina, ci sarebbero le stesse meccaniche della memoria collettiva dell’omicidio Kennedy, del rapimento Moro. O c’eri o ricordi perfettamente dov’eri e cosa facevi, quando la notizia si è diffusa. I giovani in Cina, quelli nati dagli anni 80 in poi, ignorano quanto successo. Sui libri di scuola l’89 viene catalogato come un anno difficile da un punto di vista economico, ma non esiste alcuna ufficializzazione di quanto accadde. Si parla di inflazione, di generiche questioni legate allo sviluppo.

Per altro, al di là del gesto repressivo di un Partito che si trovò a compiere la scelta più orrenda, mandare il popolo armato contro il popolo in protesta, non si conoscono ancora oggi né l’esatto numero delle vittime (300 per il governo, 3mila per i familiari delle vittime), né quanto successo all’interno delle stanze del potere del partito. Ci furono sicuramente opposizioni, come testimoniato dalle recenti rivelazioni di un militare pubblicate dal New York Times, ma tutto venne infine coperto non tanto dall’oblio che agli eventi ha riservato il Pcc, quanto dal benessero che dagli anni 90 ha permeato la Cina, finendo per lasciare a chi ha perso un figlio, una figlia, una moglie, un marito, il compito di ricordare quelle giornate.

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I principali protagonisti di allora si sono rifatti una vita, dopo fughe epiche, nascosti in camion, trascinati per il paese, protetti da complici, fino al luogo di salvezza sognato, Hong Kong e Taiwan, e poi la meta finale, gli Usa. Chai Ling, ad esempio, la ragazza simbolo di Tiananmen, poi accusata dai suoi compagni di aver spinto al massimo la protesta, vive negli Stati uniti, si è convertita al cristianesimo e ha detto di aver perdonato i carnefici dell’89 (sul suo blog sull’Huffington Post, perché gli «ex leader della protesta cinese» negli Usa tirano ancora).

Non la pensa così Wang Dan, altro fuggitivo, ricercato numero uno dalla mattina del 4 giugno. Il suo identikit recitava: «24 anni, studente di Storia, 1 metro e 73 di altezza, mento pronunciato, capigliatura poco folta, abrasioni dentarie agli incisivi». Wang Dan ha risposto a brutto muso alla sua ex compagna: lui non perdona. Chissà cosa pensa invece Li Lu, altro capo popolo di allora, e oggi considerato (negli States) l’erede di Warren Buffet. Studenti, intellettuali: Liu Xiaobo non è andato via, è rimasto in Cina, ha vinto un Nobel, in carcere.

A Pechino non è molto noto, ma è uno dei pochi intellettuali che ha pagato, anche a scoppio ritardato: arrestato dopo aver pubblicato Charta08, poco prima delle Olimpiadi. Chiedeva democrazia e federalismo, che per il governo significava tentare una vera e propria «sovversione di Stato».

Chi è in carcere, ancora oggi, e viene considerato l’ultimo prigioniero di Tiananmen è un operaio. Ne ha dato notizia il Wall Street Journal, attraverso le parole di un membro di una ong che si occupa di quelle giornate. Basti ricordare che prima di Tiananmen, ci furono molte proteste operaie e poi – e questa è una delle colpe che si attribuisce ai leader studenteschi – mancò l’aggancio vero, quello che avrebbe fatto saltare il banco, ovvero una vera unione di intenti e obiettivi tra gli operai e gli studenti.

Il fatto che «l’ultimo prigioniero di Tiananmen» sia un lavoratore, però è un dato particolarmente rilevante, che scivola sui sentieri delle leggende popolari che in Cina animano il ricordo di quelle giornate. Propaganda e nazionalismo vuole vera questa storia, ad esempio: i leader delle proteste studentesche erano della Cia, furono spinti e pagati dagli Usa per bloccare le riforme cinesi e spingerle più avanti.

Sarà un caso, dicono questi cinesi particolarmente attenti a quanto ordina il Partito, che tutti gli studenti protagonisti della piazza sono scappati a Hong Kong e Taiwan e poi infine negli Usa? È la versione del Partito, questa, ma risulta condivisa, forse, dalla maggioranza dei cinesi. Insieme ad un’altra: l’89 è una fissazione degli occidentali. Vagli a spiegare che sulle nostre televisioni, complice l’arrivo di Gorbacev a Pechino e un’attenzione mondiale su quella piazza, si potevano vedere e sentire le immagini di giovani cinesi che andavano contro il Partito comunista cantando l’Internazionale.

Come spiegare a un cinese la contraddizione che questo scatena nell’animo di un laowai (uno straniero)? Per loro tutto è meno contraddittorio; la storia cinese è fatta di scoperte, grandi nome nella filosofia, nella letteratura, ma è anche contraddistinta da guerre, violenze, conflitti civili, spietatezza. I giornalisti chiamano questo atteggiamento «pragmatismo». Ma oggi, dicono i cinesi, possiamo rinunciare al benessere, all’auto di lusso, alle vacanze, per ricordare quei giorni di caos e confusione? Per avere cosa in cambio?