Diranno che li ho uccisi io è il film scritto e diretto da Danilo Correale (1982, Napoli, vive e lavora a New York) realizzato dopo tre anni di gestazione indagativa tra letture, ricerche di archivio e incontri, ed è anche il progetto vincitore della prima edizione del bando Italian Council (2017), concorso ideato dalla Dgaap del Ministero per i beni e le attività culturali, per promuovere l’arte contemporanea italiana nel mondo.
Come scrive l’artista in catalogo, Diranno che li ho uccisi io è un’opera che tratta di arte e fallimento, poiché nei suoi 37 minuti filmici, si avvicenda il recupero di schegge di storia del cinema italiano mai realizzato, occultato nei faldoni degli archivi, rimasto idea o semplice sceneggiatura e sottratto al suo making quasi sempre per interdizione censoria. Diranno che li ho uccisi io, appena presentato a Milano da Careof (visibile fino al 17 novembre), partner dell’opera insieme al Mart di Trento e Rovereto e al Mac di Belfast, è un meta-film.

È IL CINEMA vissuto con la sensibilità di un artista, che tenta di «materializzare» la censurata ispirazione di registi altri. Per fare questo, Correale ha operato una contro-narrazione attraverso una struttura filmica correlativa, imperniata su due dominanti: una attoriale (la presenza fisica di Ernesto Mahieux, interstiziale e onnisciente che cuce una storia all’altra) e una scultorea (delle Structures geometriche tridimensionali alla Sol Lewitt, mobili e metamorfiche, che diventano un set espanso) che fanno da collante al plot.

L’ATMOSFERA BRECHTIANA in cui si sviluppano i vari frammenti rende quasi metafisico il film che si dirama sul crinale di sei tematiche insidiose. Correale rianima la spinosa questione del colonialismo, del Fln e della guerra in Algeria in Un dio nero, un diavolo bianco del 1961-62 (nato da una idea di Sartre), finito sulla scrivania di Enrico Mattei, presidente dell’Eni, e mai realizzato per la scomparsa del suo committente, appunto. Passa alla sceneggiatura Lettere dall’interno, racconto per un film su Simone Weil, di Liliana Cavani, accantonato per mancato interesse dei distributori. Glissa sui disagi della periferia romana negli anni 80 ne La ballata degli angeli assassini di Claudio Caligari, film mai venuto alla luce per mancanza di fondi.
Scende nei territori della resistenza antimilitarista nell’Italia del secondo dopoguerra con La brigata inesistente, del ’68-69, di Augusto Tretti, bollato come poco commerciale. Si inerpica in un copione di Carmelo Bene A boccaperta su Giuseppe Desa da Copertino, controversa figura religiosa salentina che aveva il dono della levità, irrealizzato perché troppo sperimentale. Ridiscende nel cuneo armato degli «anni di piombo» con Sconosciuto (film sulle BR) pensato da Dario Argento, cui i produttori hanno mostrato completo disinteresse.

Inutile dire che oltre ad affondare la lama nell’intoccabile mondo della censura e del disimpegno dell’industria culturale, Correale fa una scelta visionaria, zigzagando tra generi spuri fra loro e riappropriandosi di temi infidi che hanno accompagnato la storia contemporanea, dal post-fascismo al 1984, nei suoi tabù ed immaginari, buchi neri, diatribe politiche e sociali. L’artista inventa, con straordinaria sintesi, un film che si muove per cut-up e che, in un processo unitario salda storie di dissidenza, sovversione, credenza popolare, lotta armata, femminismo. Le immagini che rimandano alle sceneggiature si sviluppano quasi per metafora, sottratte a ogni eccesso scenografico e affabulatorio. Esse vengono filtrate attraverso la struttura geometrica open frame che le decostruisce, trasmigrando il corpo-cinema in corpo-scultura. Diranno che li ho uccisi io concorre a un immaginario poetico/politico, che riafferma ancora una volta la distinzione creativa di Correale, artista sperimentale, da sempre attratto e coinvolto nell’analisi dei processi politici e culturali di trasformazione sociale.