Danni collaterali o «effetti» se preferite. I portavoce militari le chiamano così, le vittime civili. Che si tratti di donne, bambini, uomini inermi, rientrano tutti nella stessa categoria. Quella del «tragico incidente», come il segretario alla Difesa Usa ha subito definito l’attacco aereo statunitense di ieri mattina sull’ospedale di Kunduz.

Un linguaggio asettico, quanto più neutro possibile, per neutralizzare la comprensione delle cause, per derubricare a evento naturale ogni scelta politica, per negare ogni responsabilità. Dietro un bombardamento aereo non c’è nessun automatismo, ma una precisa scelta, una precisa responsabilità. Politica ed etica. Assuefarsi al linguaggio protocollare dei comunicati stampa degli eserciti equivale ad archiviare ogni strage come incidente. Credere alla bella favola della guerra umanitaria, pulita e chirurgica, che solo in certe occasioni finisce per coinvolgere i civili.

È tragicamente vero il contrario. I civili sono le prime vittime di ogni guerra. E di tutte quelle che si sono succedute con la definizione di «umanitarie» e che hanno visto un impegno militare spaventoso dell’Occidente. Sempre di più. Stragi, omicidi (di Stato, ma pur sempre omicidi), non «tragici incidenti».

L’Afghanistan – quasi scomparso dai radar dei media e della diplomazia internazionale, perché dato chissà perchè pacificato o in via di pacificazione – torna sanguinosamente a ricordarcelo. Con un «incidente» più tragico di altri. Delle 19 vittime finora accertate dell’attacco di Kunduz, 7 erano pazienti ricoverati nell’ospedale di Medici senza frontiere (tre dei quali identificati come bambini). Sembra che siano rimasti intrappolati sotto le macerie. Bruciati vivi.
Ma in Afghanistan l’elenco degli errori, la lista dei «bombardamenti chirurgici» finiti in strage è lunga una litania. A partire proprio da Kunduz, quando nel 2009 – l’ha ricordato Emanuele Giordana nei giorni scorsi su questo giornale – aerei dell’Alleanza atlantica, chiamati in soccorso da un colonnello tedesco, «bombardarono centinaia di persone che stavano tentando di spillare gasolio da due autobotti, poco prima sequestrate dalla guerriglia».

Spesso la strage viene dall’alto, a volte no. Come nel caso di Benafshah, la ragazzina di 13 anni uccisa il 13 maggio del 2009 da un soldato dell’esercito italiano. Benafshah era in viaggio con la famiglia, da Farah a Herat, per partecipare a un matrimonio. Lungo la strada l’auto su cui viaggiava ha incrociato tre veicoli militari italiani. È morta alle 10.30 del mattino. Per un «tragico incidente», hanno dichiarato le autorità italiane.