Come è noto, in epoca sovietica le distinzioni tra le varie repubbliche si erano indebolite, e anche nel calcio i sovietici tifavano nelle competizioni internazionali per la loro nazionale senza prestare attenzione a quale nazionalità appartenessero i giocatori che la componevano. Così anche i giocatori sovietici che giocarono nel campionato italiano vennero semplicemente chiamati «russi». Anche se di fatto furono tutti ucraini.
A cominciare da Pietro Vierchowod a cui venne appiccicato dai tifosi il soprannome di «russo» ma anche di «Zar». Il padre Ivan era nato in Ucraina nella provincia di Lugansk. Negli anni Trenta, nell’epoca della grande carestia seguita alla collettivizzazione forzata delle campagne, aveva lavorato come operaio metallurgico. Arruolato nell’Armata Rossa combatté in Finlandia e Polonia dove venne fatto prigioniero. Qui iniziò il suo lungo viaggio attraverso i campi di prigionia italiani da Bolzano a Milano da Pisa a Bari. Alla fine della guerra temendo di essere riportato in Urss (Stalin sospettava di tutti coloro che erano stati prigionieri e spesso li spediva in Siberia) fuggì dal campo di prigionia. In seguito sì sposò e divenne padre di tre figli. Uno di essi Pietro, sarà giocatore di Roma, Sampdoria, Milan oltre che campione del Mondo a Spagna 1982. Difensore arcigno Vierchowod è sempre stato però ricordato dagli attaccanti come giocatore leale.
Alexader Zavarov quando arriva a 27 anni Italia, nel 1988 è un caso del costume prima ancora che calcistico. È il primo giocatore sovietico a trasferirsi a giocare in Occidente. La Juventus per averlo mobilita le pubbliche relazioni della Fiat, sborsa 7 miliardi di lire, anche se al giocatore viene deciso assieme allo Spartak Kiev, di garantire uno stipendio ridicolo per gli standard italiani di 1.200.000 lire oltre ad una Fiat Tipo come benefit.
Considerato da Valery Lobanovsky un fuoriclasse, in Italia fallisce miseramente. Gli viene affidata la maglia numero 10 appartenuta a Michel Platini che gli pesa sulle spalle come un macigno e deve scontare la pressione della stampa. Si dimostra discreto centrocampista con propensione al gol, ma nulla di più. Scadente in fase difensiva e nel gioco senza palla, resta due stagioni alla Juve, senza lasciare ricordi particolari.
Tutta romantica è invece la storia invece di Silvano Villa. La madre Sonya Samovska nasce non lontano da Kiev. Fu «una di quelle zone dell’Ucraina che durante la guerra fu occupata dai tedeschi. E mia madre come molti sovietici fu deportata in Germania. Fu una tragica esperienza prima nei campo di concentramento di Munden e poi in quello di Lipsia» racconterà Villa in un intervista a Enzo Tortora nel 1970. Sonya lavora al reparto distribuzione chiodi e cacciaviti e un giorno a farle una richiesta si presenta un prigioniero italiano: si chiama Paolo Villa ed è amore a prima vista. Finita la guerra tornano in Italia e vanno a vivere in Brianza. Nel 1951 Sonya gli dà un figlio, Silvano che viene subito instradato al calcio dal padre fervente appassionato. A 14 anni entra nelle giovanili del Milan e nell’autunno 1970 quando «Paron Rocco» lo chiama in prima squadra segna gol a raffica. Gioca anche nella nazionale giovanile. Ma la sua stella brilla per poco. Rientrato Pierino Prati come titolare viene emarginato e va giocare a Foggia e Genova senza grandi risultati. Rientrato al Milan nella stagione 1975-1976 ha il suo ultimo momento di gloria segnando la rete decisiva che regala al Milan la vittoria nel derby.