Lo potremmo chiamare il Domino degli Archivi, Reperti Conservati In Eterno, Soffitte Infognate di Ricordi, Cantine Piene di Bauli. È il fenomeno degli oggetti che hanno accompagnato la crescita di un figlio e, quando lui va a vivere per conto proprio, non porta con sé lasciandoli a ingombrare la casa di mamma e papà.
Il tratto di base è la difficoltà a separarsi da ciò che simboleggia pezzi di vita passata, sia un frisbee dell’adolescenza piuttosto che le prime scarpe col tacco. Il problema comincia a presentarsi già alla nascita perché chi ha il coraggio di buttare il braccialetto con cui identificano il neonato o il dentino da latte caduto?

Poi arrivano i primi disegni, i quaderni delle elementari e, di anno in anno, si accumula di tutto: pupazzi di stoffa o di carta, orrendi quadretti fatti con la pasta incollata, collanine, creazioni di argilla, biglietti di auguri con stelline e cuoricini, gli album con le figurine dei calciatori, le bambole preferite e relativo guardaroba, il Lego o il trenino che piacciono anche a papà, la chitarra abbandonata dopo due anni di corso, ma tenuta perché «Non si sa mai che gli venga voglia di ricominciare», le matite colorate ancora nuove, la divisa da scout «Perché segna un passaggio», le pagelle, soprattutto le migliori, e poi abiti che segnano la crescita, oltre al cambio di mode e di gusti, in un crescendo di oggetti che testimoniano cambi di passioni e di hobby, trasformazioni, aspirazioni, successi, insuccessi, insomma la vita e il suo muoversi.

Tutto ciò esplode quando i figli se ne vanno di casa, ma nessuno di loro, almeno di mia conoscenza, porta con sé questo archivio o perché la casa è troppo lontana, o troppo piccola o provvisoria. Nelle abitazioni dei genitori resta così una montagna di roba che dopo alcuni anni comincia a pesare e ingombrare e allora inizia il balletto del «Portati via almeno i vestiti», «Ma sono vecchi. Buttali», e finisce che tutto resta lì come prima.

Se penso alla soffitta di mia madre che, povera donna, si è ormai rassegnata a lasciare lì le stratificazioni mie e dei miei tre fratelli, vedo come legge del contrappasso la panca da palestra, la collezione di Dylan Dog, il judogi, i libri universitari che mio figlio ha lasciato da me in una sorta di mini occupazione diffusa. Sospetto ci sia una tacita complicità fra genitori e figli che, in questo modo, tengono vivo il cordone ombelicale.
La faccenda, però, diventa davvero ingombrante quando l’eredità riguarda foto degli e con gli amori passati.

Ho un’amica che, nel tentativo di riunire in un solo scaffale i reperti sparsi ovunque del figlio (orologi, vecchi apparecchi fotografici, chiavi di chissà cosa e una miriade di altri oggetti) ha trovato il carteggio e le foto della e con la sua prima ragazza, per di più incorniciate. Restituirle a lui era impensabile perché vive con una nuova fidanzata. Smontarle e farne un album significava santificare il legame. Buttarle non si poteva perché non era compito suo, e poi la ex le stava pure simpatica.

È stato un vero dilemma che ha risolto chiudendo quei ricordi di amore finito in una scatola che ha sistemato in un angolo della libreria, fra i libretti d’opera e le guide di viaggio. Non ha nemmeno potuto incollarci sopra un’etichetta di riconoscimento perché, metti che durante una visita l’occhio della nuova convivente caschi proprio lì, come glielo spiega? L’essere diventata vestale involontaria di un amore finito, e per giunta non suo, le ha fatto giurare che la prossima estate toglierà le sue cose dalla cantina di mammà. Voi ci credete? Io no.

mariangela.mianiti@gmail.com