Ritorna al suo periodo d’elezione, da cui prende anche il nome, Primavera dei Teatri, la rassegna teatrale che ogni anno a Castrovillari propone un’ampia scelta della giovane scena, con un occhio privilegiato a quella operante nelle regioni meridionali. L’anno scorso era slittata forzatamente a novembre, per i pasticci burocratici e l’insipienza dell’amministrazione regionale presieduta da Scopelliti. Tornata alla sua collocazione originaria, ha preparato un panorama tanto fitto quanto indicativo della nuova scena italiana, cui il pubblico calabrese ha risposto con entusiasmo.

Lo spettacolo che suscitava maggiori aspettative, e altrettanto interesse ha riscosso, era del gruppo barese Fibre Parallele. Quasi sulla scia dell’argentino Spregelburd che partendo dai Sette peccati capitali di Hieronymus Bosch ha composto una sua elettrica e fantastica Eptalogia sui peccati contemporanei, Licia Lanera e Riccardo Spagnulo (autori e protagonisti di tutti i lavori del gruppo, cui si affianca qui Mino Decataldo) hanno rovesciato e selezionato dall’antico Giardino delle delizie i quattro «movimenti» de Lo splendore dei supplizi (sabato 8 giugno sarà al Festival delle Colline Torinesi che lo ha coprodotto, e poi diverse altre date estive). Usando naturalmente linguaggi e visioni drammatiche e postdrammatiche, e soprattutto quell’abituale estremismo di lettura della realtà, che non disdegna per altro l’osservazione minuziosa delle radici antropologiche della cultura meridionale.

I quattro zoom, per lo più accesi sotto lo sguardo velato di un pauroso boia che osserva e manovra cattiverie e sipario, sono così rivolti prima ad una giovane coppia di sposi in crisi, già dilaniati dalle abitudini e dalla esteriorità. E i due scoprono via via come dietro «l’amore» apparente, agiscano convenzioni ed ambizioni, frustrazioni e gelosie, rivalse e crudeltà che non si fermano davanti a nulla, anzi volentieri oltrepassano i limiti della violenza. Come del resto la patologica condizione del maniaco giocatore, lontano da quello di Dostoevskji ma teso ad una meccanica dissoluzione cruenta davanti alle macchinette.

E ancora la convivenza tra un anziano malato con problemi deambulatori, e la tirannica badante esteuropea (questa interpretata da Spagnulo, l’altro dalla Lanera) in un esasperato sadomaso dove è difficile attribuire ragioni, un vero gioco al massacro che interpella milioni di persone e famiglie in tutto l’occidente. Per finire attorno ad un altro diffuso pregiudizio che pur nasce da nobili ragioni, quello vegano. Un altro massacro dovuto alla mancanza di limiti e rispetto per tutte le scelte che non venendo comprese sono destinate a pubblica lapidazione. Anche in senso letteral/gastronomico. Insomma piccoli supplizi quotidiani, che finiscono spesso con conseguenze letali, lasciando perfino il dubbio su dove sia la ragione e dove il torto. Lanera e Spagnulo, più che in altre occasioni, fanno teatro civile, restituendoci le istantanee dei nostri orrori quotidiani; esasperazioni e paradossi, oltre a una sana autoironia, ci costringono a misurarci con pochezza e pregiudizi che allignano in ognuno di noi. Non meno «civile» è il ritratto di un grande artista che ci propone uno dei campioni del teatro di narrazione, Mario Perrotta.

[do action=”citazione”]Un bès – Antonio Ligabue è il primo stadio di una trilogia dedicata al grande artista visivo emiliano che si svilupperà ancora nei prossimi due anni. Perrotta è solo, ha conquistato un orecchiabile accento emiliano, e racconta l’arco della vita e dell’arte di Ligabue dalla nascita senza padre in Svizzera, ai raminghi vagabondaggi padani in cerca di relazioni e di scambi, forte solo, oltre ovviamente che di una umanità straordinaria, della sua fulminante capacità pittorica.[/do] E’ il grido di dolore a coprire le altre parole, un grido che prende corpo negli eccessi e nelle ingenuità di quella mano felice. È solo l’inizio di un percorso per Perrotta (che dopo tanti racconti civili aveva ultimamente scelto il confronto con i classici) che fa attendere con curiosità i suoi prossimi sviluppi.

Una sorpresa spiazzante invece l’ha offerta Giancarlo Bloise, calabrese di origine ma formatosi poi a Firenze e in altri luoghi, che porta a compimento un progetto presentato e premiato pochi mesi fa al Premio Tuttoteatro/Cappelletti. Cucinar ramingo – In capo al mondo incontra Scoglio Gabbiano e navicella è un monologo di viaggio su testi assai fascinosi di Giuliano Scabia, che danno filo e tensione all’altro percorso che l’attore compie concretamente durante l’ora della performance, quello culinario. Con un elaborato e gustoso (anche a vedersi) bric à brac di attrezzature cuciniere (a loro volta funzionali a far da scena ai racconti) Bloise ci porta su mari in tempesta dove si incontrano animali usciti dal mito, e prendono la giusta cottura, dopo adeguata preparazione, un riso pilaf alle erbe e un pollo «ubriaco» da offrire agli spettatori. L’atmosfera sta all’esatto opposto dei Master Chef e dei Mezzogiorni di cuoco tv. Quella che viene recuperata è la cucina come affabulazione e memoria di esperienze e racconti infantili, e anche un senso di dignità e rispetto per quell’attività cui ogni giorno ci si dovrebbe dedicare. Un racconto gustoso e delicato, una dimensione poetica invidiabile pur dentro un panorama domestico che può essere anche Ikea.

Una visione opposta è quella che invece ha elaborato Roberto Latini, notevole attore che spesso, come questa volta, predilige però la creazione di mondi fantastici e allusivi, dove l’umanità si muove a passo di danza, e centinaia di chiavi lucenti appese a un mantello spingono verso orienti del cuore e magie immaginifiche. Che però rischiano di svaporare assieme alla nebbia artificiale che a più riprese invade palco e platea. Ma è lo stesso pericolo che corre la danzatrice autocoscienziale che diretta e ispirata da Davide Iodice racconta di un universo animale, nella cui immedesimazione si mette letteralmente a nudo, rincorrendo ricordi ed esperienze della propria formazione. Che per Alessandra Fabbri, la protagonista, non deve esser stata semplice, e che si spera possa in futuro suggerire esperienze ed evoluzioni meno «fangose»e tremende di quelle che ci mostra.

Chi è non corre questo pericolo, è evidentemente Dario De Luca (con Saverio La Ruina direttore artistico di Primavera dei Teatri e della compagnia che questo festival promuove, Scena Verticale). A chiusura della rassegna ha presentato un avvolgente show di teatro/canzone: Morir sì giovane e in andropausa, titolo divertente e argomento delicatissimo come la precarietà coatta dei trenta/quarantenni. Humour e autoironia, costruzione attenta dei testi che non disdegnano gli effetti comici, e soprattutto una band strepitosa. Musica e parole, anche affilate, per esorcizzare un presente che richiede molti e radicali correttivi.