«… I Friday for future si sono generalizzati in molte città e metropoli del pianeta. In origine c’era solo il gesto altero di una ragazza, ma poi quell’indisponibilità a essere complice della distruzione del pianeta si è diffusa come un virus, coinvolgendo milioni di ragazzi e ragazze. E se Greta Thunberg è diventata il corpo vivente di un modo di pensare e agire l’azione politica ecologista che rompe la gabbia della tradizione militante europea, fatta di linee discriminanti chiare e nette – le imprese inquinano, gli Stati sono loro complici e la scienza è strumento di morte – per questi giovani il futuro non appare così colmo di disperazione e di una catastrofe già consumata. Bensì è la posta in gioco nel presente, dove le imprese capitaliste possono diventare compagne di strade, così come alleati possono essere gli Stati nazionali, mentre la scienza può diventare, anzi già lo è, l’ambito che può offrire soluzioni al disastro ambientale in atto, ma non ancora del tutto consumato.

LA DIFFUSIONE VIRALE di questo movimento non avviene tuttavia per volontà politica consapevole, bensì come esito di un rispecchiamento di un modo di essere, di percepire la gravità della situazione, di avere un ambito dove vedere rispecchiate inquietudini, malesseri, ma anche aspirazioni e desideri di miglioramento della propria condizione. All’interno, ovviamente, di un consolidato dispositivo che mette in forma e produce opinione pubblica. Sono cioè sentimenti che attengono alla «cattura» da parte delle piattaforme digitali della cooperazione sociale. Frammenti di stili di vita assunti come oggetto di conquista da parte di quello che viene chiamato «capitalismo della sorveglianza». E se per le imprese si tratta di materie prime da valorizzare economicamente – farci del profitto attraverso l’attivazione di quello che l’economista Shoshana Zuboff chiama in The Age of Survelillance Capitalism, il «surplus comportamentale», cioè i comportamenti di attivazione e di sviluppo delle piattaforme digitali tramite la comunicazione e la condivisione delle proprie emozioni e stati d’animo da parte degli utenti – per i movimenti sociali significa solo una valutazione della capacità virale non necessariamente politica del proprio messaggio.

C’è in questa oscillazione tra complicità, subalternità e indifferenza alla «colonizzazione» della vita operata dai dispositivi tecnologici globali, un grumo politico che attende di essere sciolto. Per quel che riguarda il presente ciò significa che l’assenza di ogni dimensione millenarista da parte dei movimenti sociali si traduce nel rifiuto della catastrofe come categoria politica. Non c’è nessun baratro a portata di cammino, né una distruzione imminente da evitare, bensì un degrado ambientale in atto che ha già cambiato stili di vita, di consumo, di accesso all’immane ammasso di merci che è il capitalismo. Più che una catastrofe, i movimenti di rivolta contemporanei sono espressione di quell’antropocene che ha modificato radicalmente i termini del rapporto tra natura e cultura, tra società e habitat naturale. Sono cioè movimenti che esprimono tali mutamenti già consumati nel tempo e negli spazi metropolitani.

QUANDO LE NOTIZIE dell’Amazzonia che brucia, o di intere regioni divorate dalle fiamme in Australia, Indonesia e in altre paesi, sono rubricate come news consuete, non si tratta di un’operazione di rimozione o di ridimensionamento di fatti che hanno un grande impatto economico, ma di una esemplificazione della crisi di un modello di sviluppo. La loro derubricazione a notizie «standard» nella «fabbrica del consenso» attesta la convinzione ormai diffusa che il cosiddetto antropocene è ormai la condizione esistenziale dell’animale umano. La concezione della natura e la sua «autonomia» dalla «cultura» sono state cioè radicalmente trasformate; e tali trasformazioni sono ormai irreversibili. Pensare al ritorno a una condizione dove esistano ancora confini tra scienza e cultura, tra tecnologia e natura mutante è non solo vano, ma illusorio e criminale dal punto di vista politico. I movimenti sociali operano cioè in una irreversibilità consumata nel tempo e negli spazi appunto metropolitani, per questo sono refrattari a una dimensione millenarista, escatologica della propria azione. Mutuando temi e argomenti dal libro-non libro la Fine del mondo di Ernesto De Martino, si può dire che i movimenti sociali sono consapevoli del rischio di un’apocalisse sociale e culturale, ma sanno anche che ogni suo annuncio è destinato a infrangersi contro l’incessante lavorio dell’animale umano sul corpo sociale e sulla natura stessa, sia per quanto riguarda l’habitat che la struttura profonda, genetica dei viventi.

Quando Ernesto De Martino dà vita al progetto sulla fine del mondo ha in mente l’eclisse del mondo contadino, mentre si alza sotto i suoi occhi, e lo osserva con lo stupore e l’orrore di chi è scosso dal potere del Progresso, il profilo di ciminiere e di contadini che imboccano con speranza le forche caudine della fabbrica.
L’antropocene abitato dai ragazzi di Friday for future è ormai una successione di isole di plastica alla deriva negli oceani. Ma anche in questo, l’escatologia senza annunciazione dell’apocalisse è opportunità politica, chance di trasformazione. Non è un caso che uno degli slogan gridato, o portato nei cartelli da chi manifesta sia: «Non si fa giardinaggio», ma una variante proprio della lotta di classe…».