«Per quello che mi riguarda il Pd non deve cambiare nome». Alla conferenza stampa dopo il match in diretta streaming con Grillo, Renzi stoppa quella che rischia di diventare una delle tante insidie della giornata. Dario Nardella, il fedelissimo che lo sostituirà a Palazzo Vecchio (e che prima di accettare «il grande onore» ha confidato a un suo collega il rimpianto di lasciare Roma ora, «mentre voi fate la rivoluzione») dalle colonne del Corriere della sera spiega che «i tempi sono maturi per chiamarci solo ’democratici’, senza la parola partito».

Renzi smentisce, dunque. Ma l’ipotesi circola da un po’ e, detta così, fa scattare il muro nel Pd. Il primo a reagire è Ugo Sposetti, ala dura della tradizione ex ds. «A Nardella dico: a lui i ’Democratici’, a noi il Partito». È una battuta. Ma neanche troppo. In queste ore Renzi tiene insieme tutti i fili della delicata trama del suo prossimo governo, non ultimi quelli dei rapporti con il suo partito. E l’uscita di Nardella, buona per il tempo delle provocazioni rottamatorie, oggi è fuori sincro e rischia di complicare i rapporti con la variegata area cuperliana.

Quella sinistra interna che da giorni gli lancia segnali di pericolo sui nomi del governo. E che, più che avvertirlo, prega il cielo che calibri bene il programma e i nomi dei ministeri pesanti senza costringere i parlamentari a un voto a naso turato. Ieri quest’area – al netto del coté civatiano, che ipotizza esplicitamente un no alla fiducia – ha presentato un documento, scritto due giorni fa, poi ritirato per malumori interni, e infine riscritto. Doveva essere discusso nella direzione di oggi, che però è stata cancellata a causa dei lavori di Montecitorio.

E così Cuperlo ieri pomeriggio ha inviato il testo a tutti i parlamentari, e soprattutto al ministro Graziano Delrio, estensore materiale del programma di governo. I ’paletti’ della sinistra sono quelli noti: la «svolta nella politica economica e in quella europea», il salario minimo – strappato dalla tedesca Spd al governo Merkel -, ius soli e coppie di fatto. Non tutto potrà essere innestato nel programma di Renzi, che deve fare i conti con Alfano. Ma certo l’opposizione si aspetta qualche segnale.

Un segnale che però deve essere visibile anche nella scelta dei ministri, più che in quella dei sottosegretari di area Cuperlo (che comunque non saranno pochi). La minoranza, per esempio, spinge perché all’economia vada un ’politico’ (come Delrio) e considera «impotabili» tanto il bocconiano Guido Tabellini quanto l’eventuale conferma di Saccomanni. Al lavoro, bene Mauro Moretti, ad delle Ferrovie (ma bestia nera della sinistra radicale, contro di lui si sono appellati a Renzi i familiari delle vittime della strage di Viareggio) e male Tito Boeri, l’economista che considerava la legge Fornero «poco coraggiosa». Né vedrebbe di buon occhio Stefania Giannini (Scelta civica), in un ministero chiave come l’Istruzione, dove è in pole position.

Il secondo segnale, per la sinistra Pd, arriverà quando il premier-segretario rimetterà mano segreteria. Dove già ieri Renzi ha annunciato un rimpasto, e un possibile allargamento della sua maggioranza in una sorta di ’gestione collettiva’ del partito. In molti hanno pensato che si riferisse all’ingresso del giovane turco Matteo Orfini, il più ’dialogante’ della minoranza interna, magari con la delega alla cultura, rimasta vacante. Orfini lo esclude: «Il tema vero è che Renzi ci spieghi come intende gestire il Pd, da premier-segretario. Il partito non è la bad company del governo».