Stretti l’uno all’altro in gabbie che non raggiungono il metro e mezzo d’altezza. Come polli in batteria, con l’immancabile caschetto sulla testa e le tute di lavoro annerite, pronti a inabissarsi fino ai 945 metri dove spaleranno carbone in cunicoli non più alti di 50 centimetri e dove, alle 8,10 di mattina dell’8 agosto 1956, una scintilla elettrica scatenerà un incendio e la morte di 262 persone di undici nazionalità diverse, 138 delle quali italiane, la metà di questi abruzzesi e, tra questi ultimi, una quarantina provenienti dal piccolo comune di Manoppello, nel pescarese. È forse questa l’immagine più emblematica dei «musi neri» di Marcinelle, oggi esposta nell’ex miniera trasformata in museo e dichiarata Patrimonio mondiale dell’umanità.

LA STRAGE AL BOIS DU CAZIERS, com’era chiamata la miniera sulle colline sopra la città di Charleroi, nel sud del Belgio, fece scoprire agli italiani fino a che punto decine di migliaia di nostri concittadini nel paese nordeuropeo fossero sfruttati sul lavoro. Il Corriere della Sera il giorno dopo titolò «Tragedia nostra» un commento affidato a Dino Buzzati, che scrisse: «Bois du Cazier, questo lontano posto che non si era mai sentito nominare, diventa Italia».

Ruben Tedeschi, l’inviato dell’Unità, dettò a braccio le seguenti parole: «Uno spettacolo pauroso si è presentato ai nostri occhi quando siamo giunti davanti ai cancelli della miniera. Il fumo – un fumo denso, nero, acre – oscurava il cielo e rendeva l’aria irrespirabile. Dal cielo buio cadeva una pioggia silenziosa di fuliggine. Di tratto in tratto, l’oscurità era lacerata da lingue di fuoco che guizzavano ruggendo dalle miniere della terra. Una folla composta in massima parte di donne e di bambini, a stento trattenuta da cordoni di gendarmi, faceva ressa per avere notizie, si accalcava intorno ai membri delle squadre di soccorso che, dopo ore e ore di durissimo lavoro, tornavano alla superficie.

Le informazioni che costoro recavano non erano rassicuranti, e, nella loro inevitabile contraddittorietà contribuivano ad alimentare l’incertezza e la confusione. Dalla folla si levavano lamenti, invocazioni e invettive: invettive contro il destino, ma anche contro coloro che portavano la pesante responsabilità della sciagura. Erano frasi gridate in molte lingue: in francese, in fiammingo, in greco, ma soprattutto in italiano, perché italiani sono in massima parte i sepolti vivi e italiani i loro figli e le loro mogli».

IL GOVERNO ITALIANO fu costretto, sull’onda dell’emozione pubblica e delle polemiche causate dall’incidente, ad aprire gli occhi e sospese l’accordo siglato nel 1946 con il Belgio, che prevedeva duecento chilogrammi al giorno di carbone per ogni lavoratore, per duemila operai sotto i 35 anni a settimana, sottoposti a visita medica preliminare e controllo politico – se «sovversivi» sarebbero stati rimpatriati – fino a un massimo di 50 mila.

NON ALTRETTANTO ACCADDE nel paese diviso tra fiamminghi e valloni e che oggi ospita la capitale d’Europa. All’indomani della strage, Le peuple, un quotidiano di ispirazione socialista e vicino al sindacato, scrisse: «Se avesse voluto (il lavoratore italiano, ndr), forse avrebbe trovato, ai margini delle tetre periferie industriali, una casetta e un giardino. Ma lo spostamento gli sarebbe costato e vuole risparmiare molto per restare il minor tempo possibile in Belgio. E poi si sarebbe trovato solo, in mezzo a stranieri, mentre a lui piace sentire cantare nella sua lingua, mangiare le specialità della sua cucina e sfogarsi tra i suoi». Per questo, concludeva, «accetta di vivere ai piedi dei terreni di scarico, dietro alle mura di vecchi accampamenti dei prigionieri di guerra», «chiude gli occhi sui canali che scaricano l’acqua sporca del bucato e non vede più la sua baracca coperta di bitume, non sente più il triste odore che sale dall’accampamento».

A SMENTIRE LA CATERVA di pregiudizi xenofobi di cui l’articolo era permeato ci ha pensato il tempo. Oggi le cantines, le baracche di legno dove si viveva ammassati su letti di paglia, senza acqua, riscaldamento né servizi igienici, e le cosiddette «case di ferro», hangar militari in cui si moriva di freddo d’inverno e di caldo in estate che circondavano quello che era stato un lager nazista prima e un campo di prigionia per i soldati tedeschi poi, affittate dalla compagnia mineraria ai lavoratori migranti scalando la pigione dal salario mensile, sono state trasformate in comode villette con giardino.

Ci vivono i figli e i nipoti dei «musi neri» del Bois du Cazier, e qualche anziano ancora in vita. Sono le seconde e terze generazioni di emigranti, gente con il doppio e a volte triplo passaporto, discendenti delle migrazioni dal sud e dall’est d’Europa che si sono accoppiate fra loro durante il lungo secolo novecentesco. Resistono, a memoria di quel che è stato, i terril, le colline nere formatesi con i detriti di carbone sulle quali crescono piante ed erbacce.

IN UNA VILLETTA di quello che oggi è un tranquillo sobborgo di Charleroi, ex città industriale oggi capitale belga della disoccupazione, viveva pure Marc Dutroux, un elettricista che, tra il 1985 e il 1996, sequestrò, seviziò e uccise quattro ragazzine. Due sopravvissero alle sue sevizie e denunciarono tutto.

Fu ipotizzato un giro più ampio di pedofilia, le forze dell’ordine finirono sotto accusa per non aver subodorato alcunché e il caso traumatizzò l’opinione pubblica al punto da provocare una «marcia bianca» di 350 mila persone a Bruxelles e le dimissioni di due ministri, come non era accaduto quarant’anni prima per la strage della miniera.

GLI ITALIANI ATTUALMENTE sono la seconda comunità di migranti in Belgio e mantengono solide radici identitarie, quella che uno studioso di emigrazione italiana in Belgio, Daniele Comberiati, definisce come «la lingua della miniera» – un misto di italiano, francese, dialetto e wallon – e tradizioni anche gastronomiche parzialmente reinventate, a ulteriore smentita dei pregiudizi belgi. Non è un caso che il Giro d’Italia nel 2006 abbia fatto tappa proprio in questo luogo-simbolo delle tragedie dell’emigrazione e della «guerra del carbone» che il piccolo Stato belga decise di combattere per risollevarsi dal conflitto mondiale. Nessuno si ricorda più delle parole di fuoco dell’epoca contro i “musi neri” italiani, accusati di fare concorrenza a basso costo ai lavoratori belgi.

I nostri concittadini furono rimpiazzati da turchi e marocchini, e il bersaglio del razzismo si spostò su di loro fino alla chiusura definitiva della miniera, nel 1984. Oggi Charleroi è un’ex città industriale, che prova a reinventarsi con difficoltà dopo la chiusura delle sue fabbriche. Sono abbandonate e neppure bonificate pure le acciaierie della Arcelor Mittal, acquirenti, salvo sorprese, dell’Ilva di Taranto.