Ragù di capra di GianFrancesco Turano (Città del Sole) è un romanzo, o almeno si presenta come tale. Anche se spesso assume le caratteristiche di un saggio scientifico; se si riconoscono e si interpretano le numerosissime allusioni, idealtipiche di situazioni reali diverse, prima che allegoriche e metaforiche, disseminate nel testo e che connotano spesso lo stile dell’autore – almeno nel suo registro narrativo.

COSÌ LA STORIA diventa un acuto saggio analitico dei rapporti fra società, ambiente, economia e politica nella Calabria e nel Sud di oggi. E anche nel prossimo futuro, pure descritto qualche anno addietro.
La vicenda del giovane finanziarista milanese, che dopo alcune speculazioni «eccessivamente disinvolte» è costretto a chiedere aiuto, rifugio e anche un po’ di clandestinità a suoi «colleghi faccendieri» più o meno coetanei – che però operano prevalentemente nel profondo Sud dello stivale, nell’area terminale dell’Appennino, all’estremo meridionale calabro-grecanico del massiccio aspromontano, laddove esso si va a tuffare nello Ionio, di fronte all’Africa – è infatti solo un pretesto per scatenare in forma scritta i sentimenti nutriti e i valori evidentemente riconosciuti dall’autore nella sua terra di origine. Che, dispiegati e interpretati, sia pure a determinare e formare una struttura narrativa, ci forniscono, per tramite del racconto, un’analisi interpretativa dei contesti socio-ambientali coinvolti assai efficace.

EMERGE NEL TESTO un carattere «strutturale» dei territori meridionali, già colto dai grandi della letteratura – come Cesare Pavese e soprattutto Carlo Levi, poi diventati (specie il secondo) anche «abitanti» dei territori che li avevano forzatamente ospitati –, che è l’ambivalenza: tra bellezza e orrido, dolcezza e violenza, degrado e splendore, colori e grigiore, convivialità e ritrosia, generosità e opportunismo, che troviamo nei luoghi frequentati dall’autore come in quelli dei letterati citati; fino – ci si perdoni l’accostamento certo assai poco degno – al protagonista della storia, il giovane faccendiere meneghino. L’ambivalenza, un carattere permanente, nel trascorrere del tempo e delle «catastrofi» storico-sociali del Mezzogiorno.

È UNA BELLA SORPRESA per il protagonista, calato in una realtà lontanissima da Milano, trovarvi situazioni a loro modo creative, leggere, info-tech e post-metropolitane; certo mediate dai suoi amici calabresi, faccendieri e giovani ’ndranghetisti, dediti a lucrare soprattutto sulle propensioni al consumo e all’uso ludico del tempo libero. Che non manca a chi torna in quei luoghi da turista, ma anche a chi vi permane, ma non ha occupazione.

GLI ATTORI LOCALI pencolano tra i ruoli di «buoni figli di famiglia» e bossetti della ’ndrangheta, rivestendo le molteplici funzioni sociali e imprenditoriali che sono consentite in quelle fasce di attività a diversi tenori di illegalità che vi si trovano ancor’oggi, dall’azienda familistica ai diversi gradi di sommerso e lavoro nero, fino alle vere e proprie attività affaristico-criminali. Pure denunciate con ironia elegante quanto spietata. In definitiva GianFrancesco Turano ci descrive una comunità ex-rurale che – pure con qualche decennio di ritardo rispetto a tante realtà italiane e meridionali – tende a dissolversi nella post-modernità urbanizzata, ovvero a «liquefarsi» come molta società.
Le ecologie, le forme, i colori, i suoni, gli odori del paesaggio calabrese, contesto in cui la vicenda si svolge, costituiscono al contrario un assaggio quasi singolare delle peculiarità di un territorio le cui potenzialità e bellezza sono ormai troppo spesso mortificate dalla pervasività e dal drammatico degrado legato agli insediamenti costruiti negli ultimi decenni; che ha colpito molti elementi portanti della struttura ecologica, in primis l’ambiente di primaria importanza, costituito dai 750 km di costa.

SULLA COSTA «urbanizzata» del basso Ionio reggino si svolge gran parte della vicenda narrata nel libro. In quei luoghi emerge però la «potenza» dei paesaggi interessati: sul degrado: prevale la dolcezza, legata ai profumi, ai colori, ai suoni, alle forme, alle luci dei contesti citati. Quella che «sale nelle giornate non troppo afose» sui lungomari, prima del tramonto, quando il giallo va a diventare rosso e poi viola e incontra il verde del mare, e «il calore della terra si mescola alle brezze di prima sera, supportate e mitigate dai vapori dell’acqua di mare».