Laurens, Pim e Eva sono gli unici tre bambini nati nel 1988 a Bovenmeer, villaggio di un migliaio di anime perso nella campagna delle Fiandre. Cresciuti insieme e talmente inseparabili da meritarsi il soprannome di «tre moschettieri». Apparentemente felici, malgrado il clima plumbeo che regna nella zona, tra famiglie segnate dall’alcolismo e dalla depressione, con un padre che insegna orgoglioso alla figlia a realizzare un cappio. Ma poi, durante un’estate afosa che per loro annuncia l’arrivo dell’adolescenza, i giochi condivisi si fanno sempre più crudeli, tra scoperta del corpo e del sesso, e violenza. Fino all’irreparabile. Quindici anni più tardi, Eva, fuggita a Bruxelles nel tentativo di dimenticare e di perdersi nella dimensione della metropoli, decide di tornare per regolare i conti rimasti in sospeso con gli amici di un tempo, con la comunità del villaggio, con se stessa.

Favola macabra e selvaggia, a metà strada tra romanzo di formazione e noir, Si scioglie (edizioni e/o, pp. 460, euro 18) tratteggia una sorta di «blues delle Fiandre», dove la «débâcle» del titolo, francofono, riguarda i destini personali dei protagonisti come quello di un’intero mondo. Più che i miserabili piccolo-borghesi di Simenon, qui vanno in scena i sentimenti sordidi di quel Plat pays cantato da Jacques Brel, dove i «neri campanili (sono) come alberi della cuccagna», o dal «Tom Waits di Anversa», Arno, grande fustigatore dell’«identità fiamminga».

Debutto narrativo, scandito da una solida scrittura iperrealista, di Lize Spit, trentenne scenneggiatrice per la tv belga, il romanzo ha ottenuto un successo straordinario nelle Fiandre e diventerà presto un film.

Questo romanzo sembra ruotare intorno all’amicizia e al ruolo che può avere nello sviluppo della personalità. Pagina dopo pagina, tutto ciò lascia però il posto a qualcosa di cupo, minaccioso, terribile. L’amicizia non è sinonimo di felicità?
Personalmente ritengo che l’amicizia possa avere nelle nostre vite un ruolo addirittura superiore a quello che vi gioca l’amore. Ma se questo non vale solo in positivo. Anche all’opposto, nel lato selvaggio e terribile di questo legame, quello che emerge tra i piccoli amici protagonisti del libro, si tratta di sentimenti e relazioni che possono risultare determinanti per la vita delle persone. Addirittura fatali. C’è un modo di dire secondo il quale gli amici si possono scegliere, a differenza di quanto accade con i parenti. Ma nel caso dei protagonisti della mia storia, loro sono i soli bambini nati in paese in quell’anno e perciò sono destinati a crescere insieme, non hanno scelta. Il meccanismo di cui sono partecipi, finirà così per schiacciarli.

La crudeltà e l’escalation violenta dei giochi dei ragazzi si mescola ad un’ansia di riconoscimento, alla necessità di vedersi negli occhi degli altri. Al di là dell’adolescenza, si tratta di una parte costitutiva della realtà in cui siamo tutti immersi.
Assolutamente. In questo caso, in particolare Eva vuole essere fedele a questa amicizia, ma sente ogni giorno di più che sta scivolando verso qualcosa di diverso e pericoloso. Ma il dramma che vive, e che la condurrà molti anni più tardi a tornare in quei luoghi, è rappresentato dal fatto che lei si considera insignificante, quasi invisibile. Ha paura di partecipare ai giochi che i suoi amici maschi cominciano a condurre, e ad imporre a tutte le ragazze della zona, ma allo stesso tempo vuole essere «vista» dagli altri, prima di tutto da Pim e Laurens. Eva si sente talmente sola che pensa che al di là di ciò che accade nel villaggio, per lei non ci sia davvero spazio per una vita degna di questo nome.

Questi ragazzini crescono in un ambiente terribile, tra genitori alcolisti, incestuosi, prossimi al suicidio. Lei descrive la famiglia come una sorta di ambiente criminale.
Mi sarebbe stato difficile scrivere di una famiglia perfetta, felice. E questo perché in realtà non ne conosco. La mia infanzia non è stata facile anche se non ha mai raggiunto i livelli di sofferenza che descrivo nel romanzo. Il vero problema è che quando sei piccolo, sei incastrato, non puoi fuggire alla condizione che la vita ti ha riservato. Quella è la tua famiglia, non hai altri al mondo. Al massimo, come accade ai protagonisti del libro, puoi cercare rifugio tre le braccia degli amici, ma nel loro caso a questo punto le cose finiscono per mettersi ancora peggio. Comunque, anche ora che sono cresciuta, non vedo intorno a me famiglie che non siano in qualche modo «tossiche». In alcuni casi ci sono abusi espliciti, in altri sono soltanto più sottili, psicologici, ma il risultato lascia comunque il segno sui ragazzi.

Nelle Fiandre, dove risiedono poco più di 6 milioni di persone, il suo libro ha sfiorato le 200mila copie, trasformandosi in uno dei romanzi fiamminghi più venduti e letti di sempre. I lettori si sono in qualche modo riconosciuti in questa storia?
Almeno in parte. Il paese è costituto soprattutto da piccoli villaggi di campagna come quello che è al centro del libro. Molte persone hanno riconosciuto un’atmosfera, un clima in qualche modo famigliare, anche se non hanno mai vissuto vicende come quelle che racconto. Parlo del fatto di sentirsi sempre osservati, sotto gli occhi di tutti, in qualche modo vittime del controllo sociale. Questo, oltre al crescente senso di insicurezza che si respira anche qui o al fatto che l’alcolismo di alcuni personaggi del libro è in realtà un fenomeno davvero diffuso, specie nei piccoli centri. In molti hanno letto il romanzo e poi lo hanno regalato ai loro vicini, come a voler condividere qualcosa che si sente già come comune.

Questa visione tetra e minacciosa dei villaggi di campagna rimanda alla sua infanzia?
In realtà non volevo dare un’immagine così negativa della vita in questi centri, ma le cose sono venute un po’ fuori da sole. Nel libro non c’è niente di esplicitamente autobiografico, ma certo non posso dire di essermi sentita fino in fondo a mio agio quando ero piccola. Quando ho lasciato Viersel, il paesino di mille anime della provincia di Anversa in cui sono nata e cresciuta, avevo solo 17 anni, ma mi sono resa conto subito che stavo cominciando a respirare in un altro modo. E infatti ho cominciato a tornare sempre meno dai miei, nei weekend. In un villaggio, hai l’impressione di essere sempre giudicata, non puoi fare cento metri senza che almeno una decina di persone si dicano: «Hai visto che è passata Lize, dove stava andando?». In apparenza tutti sanno tutto di chiunque, ma in realtà nessuno si conosce davvero, al punto che ci si stupisce sempre di qualunque cosa che scarti un po’ rispetto all’ordinario. La verità è che un paesino è un po’ come una pentola a pressione: tutto rimane celato, ma sempre sul punto di bollire.

Per lei la scrittura rappresenta un modo per reagire a tutto ciò?

In qualche modo si. Al senso di oppressione che provavo, ma anche alle mie paure più profonde. Ho scritto un racconto su Marc Dutroux (il pedofilo belga responsabile della morte di due bambine e di due ragazze tra il 1985 e il 1996, nda) quando avevo solo 11 anni. Ero terrorizzata dalla sua figura e ripetevo ai miei genitori che ero sicura che prima o poi sarebbe venuto a rapirmi. Per questo ho sempre considerato la scrittura alla stregua di una corazza, un’armatura, qualcosa in grado di mettermi al riparo da ciò che mi spaventa. Allo stesso modo, scrivere mi è sempre apparso come il modo più semplice e allo stesso tempo potente per avere il controllo su me stessa. Se posso scrivere, mi dicevo fin da piccola , vuol dire che posso decidere della mia vita: posso scegliere quale sarà «il mio romanzo», quello di cui solo io sarò la protagonista. In fin dei conti, forse scrivo solo per capire chi sono, per rispondere da sola a delle domande che altrimenti mi lascerebbero senza fiato. E la scrittura diventa questo ossigeno del quale non posso più fare a meno.