L’interno dell’ex zuccherificio Domino di Brooklyn è una caverna arrugginita, illuminata di traverso dai raggi del sole che scende sull’East River. La luce entra obliqua dai lucernari ingialliti, altissimi, e irrora la penombra dell’enorme spazio vuoto, come fosse la stiva di una nave fantasma, un mercantile rottamato sulla riva, dirimpetto alle guglie di Manhattan.
L’impressionante struttura è datata 1856: all’epoca, era la più grande raffineria di zucchero al mondo, un impianto rimasto in attività fino al 2004 quando gli ultimi 225 operai sono stati stati licenziati e ha chiuso i battenti. Prima, per 148 anni di seguito, la fabbrica aveva prodotto tonnellate di bianco zucchero giungendo a fornire più della metà del fabbisogno americano. Oggi è un maestoso cimelio, un monumento in mattone alla rivoluzione industriale, all’economia padronale del primo capitalismo americano e a un’altra New York il cui passato manifatturiero si sbiadisce nel passato come un vecchio cinegiornale.
Ma, dopo un decennio di abbandono, la Domino refinery è rinata in queste settimane di tarda primavera (visitabile fino al 6 luglio) come contenitore di un imponente ed efficace opera di public art. Da un mese circa, ogni weekend la gente si accalca in lunghe file ai cancelli aspettando di entrare in quell’androne spettrale alla cui estremità, dopo che gli occhi sono abituati allo scuro, si intravede lei, la grande sfinge di zucchero, la prima istallazione tridimensionale di Kara Walker, nota soprattutto per i lavori realizzati in figure di carta ritagliata.
L’imponente scultura raffigura una gigantesca donna prona, accovacciata in terra nella posa classica di una sfinge. La statua è bianca candida, accecante se non fosse per la penombra, dato che l’enorme scultura è realizzata in zucchero. Sdraiata nel suo antro, poggiata sui gomiti, coi grandi seni che toccano terra, guarda dritto in avanti con placida severità. Col pollice della sinistra fra indice e medio fa il gesto apotropaico a sfondo sessuale (femminile), un antico scongiuro che può essere insultante, ma anche propiziatorio di fertilità. Un concetto quest’ultimo evocato dalle colossali natiche e il sesso che la figura espone sul retro.
Possente e voluttuosa nelle curve africane, indossa come unico unico indumento il fazzoletto legato sulla testa che la rende in parte Venere di Willendorf e in parte una citazione del marchio Aunt Jemima – brand di sciroppo per pancake dalle cui bottiglie per anni ha ammiccato l’effigie di una schiava contenta, una «mammy» ispirata a Hattie McDaniel, la tata di Via Col Vento.
L’opera artistica di Walker è da sempre ambientata nel sud «antebellum» di cui l’autrice sovverte gli stereotipi, utilizzando il lessico romantico per raffigurare la sanguinosa crudeltà dello schiavismo, la sistematica sottomissione e l’annessa violenza sessuale. E anche qui tutto rimanda al sud delle piantagioni, in particolare quelle della Florida, la Louisiana e dei Caraibi – amare fonti del fiume di dolcezza che scorre verso i mercati e i palati dell’occidente.
La coltura della canna, naturalmente, ha un pesante bagaglio coloniale e razzista che risale allo sfruttamento da parte dei monopoli zuccherieri inglesi, europei e americani (quello narrato fra gli altri da Gillo Pontecorvo in Queimada). E le condizioni nelle odierne piantagioni caraibiche, quelle ad esempio dei lavoratori haitiani nei campi di Santo Domingo, non sono diversissime dalla servitù coatta su cui sono state costruite fortune industriali che perdurano fino ad oggi .
La Domino, subsidiary della American Sugar Refining, si è disfatta dell’obsoleta raffineria di Brooklyn dieci anni fa, ma ne mantiene ancora di gigantesche, una dozzina in giro per il mondo (in Messico, ad esempio, e in Belize oltre che in Louisiana) e con una manciata di altri conglomerati controlla oggi un business internazionale che non avrà forse il potere assoluto dei magnati del 18mo e 19mo secolo, ma rimane pur sempre uno dei più potenti monopoli industriali mondiali.
La ASR, in cui partecipa la famiglia Fanjul (famigerati latifondisti anticastristi della canna emigrati in Florida da Cuba) ha lobby politiche influenti e interessi controllanti in nazioni emergenti. Big Sugar d’altronde, un po’ come il settore del tabacco, ha ogni interesse a perpetuare una domanda costante per il suo prodotto (fortemente sovvenzionato da molti stati) attraverso la commercializzazione massiccia di prodotti dannosi o di basso valore dietetico. Fino a poco prima della chiusura, inoltre, la Domino è stata al centro di duri contenziosi sindacali – l’ultimo sciopero iniziato nel 2000 dai cinquecento operai rimanenti è durato per un anno e mezzo.
Tutto questo evoca la grande scultura di Kara Walker nel suo fatiscente androne deindustrializzato, tanto più che, sparsi sul pavimento antistante la sfinge, ancora appiccicoso dei residui di zucchero, Walker ha collocato una serie di figure di bambini fatte di resina e melassa, piccoli bimbi neri disseminati per la fabbrica recanti grappoli di frutta o grandi ceste di zucchero. Grondanti sciroppo, alcuni trasparenti come di alabastro, sono putti-operai che subiscono la fatica con rassegnazione angelica, ma anche piccoli spettri che silenziosamente ci rimproverano e, a tratti, appaiono come carbonizzati; testimoni silenziosi di una macabra e secolare storia di orrori e linciaggi.
Neri e appiccicosi ricordano inevitabilmente anche i Tar Babies delle fiabe popolari della tradizione afroamericana. In Song of the South, il «tar baby» è un fantoccio di catrame confezionato da frate volpe per ingannare frate coniglio che lo prende per vero e gli rivolge la parola. Quando il fantoccio rimane muto, Coniglio di arrabbia e lo colpisce rimanendo invischiato nel catrame, fino a quando sopraggiunge la Volpe. Solo usando l’ingegno, Coniglio riuscirà a convincere Volpe a gettarlo nei rovi (implorandolo di non farlo) e così a districarsi e fuggire. Nel tempo il Tar Baby, il pupazzo «nero e appiccicoso» della parabola (ripreso, poi, come titolo dell’omonimo romanzo da Toni Morrison) è andato assumendo una valenza razziale e razzista alla quale Walker fa chiaramente riferimento. I suoi piccoli bambini neri sono pozze catramose nella coscienza della nazione e degli spettatori.
La gigantesca madre-black che dall’alto contempla i suoi bimbi-fantasma con protettiva severità è infine «site specific», come tanto si usa dire oggi, per come si mette in relazione anche con lo specifico contesto urbano circostante: quello di Williamsburg, appunto, e dei vicini quartieri neri di Brooklyn – Bushwick, Red Hook, Bedford Stuyvesant. Zone storicamente afroamericane che subiscono l’inesorabile assedio della gentrificazione, quel fenomeno che ripropone in forma di speculazione immobiliare atavici conflitti sociali e rapporti di potere. Per questo la «colonizzazione» di quartieri etnici da parte di giovani creativi o benestanti è fonte di tanto attrito (a Brooklyn in particolare se ne è fatto interprete Spike Lee).
Williamsburg, dove sorge la raffineria, è l’epicentro nazionale della gentrification, un quartiere proletario italiano portoricano ed ebreo che, nell’ultimo decennio, è stato sventrato da una trasformazione in ambitissimo quartiere residenziale che ha fatto impennare gli affitti allontanando gli abitanti originali.
La stessa fabbrica Domino, verrà a breve rasa al suolo e sostituita da grattacieli con 2000 appartamenti di lusso con vista fiume per nuovi abbienti inquilini. Uno sviluppo paradigmatico di quelle «riqualificazioni» repentine dal sottotesto sempre socioeconomico e spesso razziale che, nelle città americane, possono in pochi anni stravolgere tessuto sociale, tradizioni e memoria storica di un quartiere. Le sculture di Walker sono quindi, polemicamente, anche dei «negri da museo», raffigurazioni agrodolci di una memoria storica destinata presto a scomparire.