Lo scorso agosto, mentre le inondazioni flagellavano il nord Europa, il caldo arroventava Canada e Europa, e in vaste aree del pianeta dilagavano incendi senza precedenti, L’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) delle Nazioni Unite ha pubblicato il Sesto rapporto sulle basi fisico-scientifiche dei cambiamenti climatici che, a quasi trent’anni dal primo, definiva il riscaldamento del pianeta inequivocabilmente responsabilità dell’attività umana e i cambiamenti climatici in fase di accelerazione e diffusi a tutte le aree del pianeta, rendendo ormai irreversibili fenomeni come lo scioglimento della calotta artica e dei ghiacciai, la perdita di carbonio dal permafrost, l’aumento del livello del mare e l’acidificazione degli oceani.

UN RAPPORTO RILEVANTE non solo per l’uso di modellistica sempre più sofisticata degli effetti dei cambiamenti climatici e sulla quantificazione del fattore antropico, quanto sulle possibili soluzioni che venivano prospettate dagli scienziati, e che dovevano fornire le basi di discussione per la COP26.

RISPETTO AL PASSATO L’IPCC HA FORNITO una valutazione dei cambiamenti climatici su scala regionale più dettagliata, ha incluso un focus sulle informazioni utili per valutazione del rischio, l’adattamento e altri processi decisionali che sono di aiuto nel tradurre i cambiamenti fisici del clima – calore, freddo, pioggia, siccità, neve, vento, inondazioni costiere e altro – nei loro significati più diretti per le società e per gli ecosistemi e ha quindi esplorato la «risposta climatica» dei luoghi prospettando 5 nuovi scenari di emissioni, che vanno da bassi a elevati: nessuno di questo scenario era confortevole, ma visti i risultati dei negoziati a Glasgow, è probabile che quelli meno pessimistici li possiamo anche mettere da parte.

SECONDO IL RAPPORTO, INFATTI, il riscaldamento globale di 1,5°C e 2°C sarà superato durante il corso del XXI° secolo a meno che non si verifichino nei prossimi decenni profonde riduzioni delle emissioni di CO2 e di altri gas serra, e alla COP26 si è capito che non sarà così. Infatti, gli scenari ottimistici sono in linea con l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di mantenere i limiti del riscaldamento globale sotto i 2 °C, un livello di riscaldamento che aumenta la frequenza e l’intensità di eventi climatici estremi e si traduce in un innalzamento del livello del mare di oltre 60 centimetri, ma dove le conseguenze climatiche più gravi vengono evitate.

COSA SUCCEDERA’ E QUALI SONO I LUOGHI più a rischio del pianeta lo si capisce dalla descrizione dei cambiamenti che avverranno negli «estremi». Si prevede infatti che per esempio alcune regioni alle medie latitudini e semi-aride, e la regione del monsone sudamericano, vedranno il più alto aumento della temperatura media dei giorni più caldi (di circa 1,5/2 volte il tasso di riscaldamento della globale). L’Artico sperimenterà il più alto aumento della temperatura media dei giorni più freddi (di circa 3 volte il tasso di riscaldamento globale) e probabilmente sarà praticamente privo di ghiaccio marino a settembre almeno una volta prima del 2050.

ECCO, QUINDI, COME IL POLO NORD diventa uno dei luoghi a rischio scomparsa. Questo fenomeno peraltro innesca, tramite la cosiddetta «amplificazione artica» un ulteriore aumento delle temperature che a sua volta accelera ancor più la fusione del ghiaccio e quindi l’innalzamento degli oceani: nel più pessimistico degli scenari l’innalzamento arriverebbe a un metro. Questo significherebbe la forte riduzione, quando non la scomparsa, di isole come Maldive, Kiribati, Palau, Barbados, le Isole Marshall, le Solomon, che vedono già i primi migranti climatici: essendo basse con spiagge sottili già oggi sono spesso allagate, e l’acqua salata che entra nei campi mette in ginocchio l’agricoltura e le risorse alimentari.

UNO SCENARIO INQUIETANTE ANCHE A CASA nostra: le acque del mare Adriatico arriverebbero fino alle porte di Bologna. La città di Venezia è a rischio anche in scenari meno pessimistici e fa da ancella alle cinquanta grandi metropoli costiere che in base a una recente indagine condotta da scienziati di Climate Central finiranno sott’acqua entro 40 o 50 anni se continueremo a immettere anidride carbonica e altri gas a effetto serra – come il metano – ai ritmi attuali. La quasi totalità si trova in Asia, in particolar modo in Cina, Vietnam, Indonesia e Thailandia, ma fra di esse c’è anche la città di New York.

L’INTENSIFICAZIONE DEL CICLO dell’acqua su scala globale la fa da padrone con effetti opposti a seconda dei luoghi: le precipitazioni aumenteranno alle alte latitudini, nel Pacifico equatoriale e in alcune regioni monsoniche, ma diminuiranno in alcune regioni subtropicali e in aree limitate dei tropici. Si prevede che le precipitazioni monsoniche aumentino nel medio-lungo termine su scala globale, in particolare nell’Asia meridionale e sudorientale, nell’Asia orientale e nell’Africa occidentale, tranne che nell’estremo ovest del Sahel, fascia afro-tropicale che comprende il Mali e Timbuctù, dove invece si aggravano i fenomeni siccitosi, avanza la desertificazione e i suoli perdono la loro capacità produttiva.

IL CAMBIAMENTO NEL REGIME DEI MONSONI è destinato a produrre effetti anche sul vasto e articolato territorio australiano, che, lo scorso gennaio, ha già dovuto far fronte a temperature straordinariamente alte, fino a sedici gradi sopra la media. Mentre nel nord, e parzialmente nel centro del continente, l’intensità delle precipitazioni aumenterà, con aumento anche della violenza dei cicloni. Al sud e all’est diminuiranno; contemporaneamente si prevede un arretramento delle coste, tra erosione e territori sommersi, che si prevede nel 2100 possa in alcuni casi arrivare anche a 200 metri in meno rispetto al 2010. A rischio un intero continente.