«In questi ultimi anni in Italia si parla poco o nulla di politiche abitative»: così si apre La casa pubblica, un volume pubblicato da Viella (pp. 241, euro 28) nel quale Daniela Adorni, Maria D’Amuri e Davide Tabor ricostruiscono la lunga storia dello Iacp torinese. La ricerca storica muove necessariamente dai problemi del presente e le questioni dell’abitare, come, più in generale, quelle del territorio e della città, sono oggi al centro della discussione in un mondo sempre più cementificato e ormai più urbanizzato che rurale. O, meglio, dovrebbero essere centrali, perché nel nostro Paese, come proseguono gli autori, «le ricadute sul dibattito pubblico sono scarse» e si è consumata una «drastica riduzione dei fondi»: gli effetti di questa situazione sono stati documentati su queste pagine da accurate inchieste di Bonadonna, Puccini, Santoro e altri.

LO SGUARDO degli studi storici serve a collocare questa vera e propria «rimozione politica» più recente nel contesto di una «disattenzione di lungo periodo», funzionale alla costituzione di un’Italia proprietaria di case, ove l’offerta di abitazioni a fitti contenuti è risultata costantemente inadeguata ai bisogni della popolazione (in materia merita sempre una rilettura lo scritto di Valentino Parlato del 1970 sul «blocco edilizio»). Purtroppo la storiografia italiana sconta una situazione paradossale. Le periodiche fioriture di aggiornate ricerche di storia urbana hanno interessato solo in piccola parte l’abitare popolare, perché si sono concentrate soprattutto sulla storia dell’architettura, dell’urbanistica o della città più in generale, specie sotto il profilo politico o legislativo. Lo scavo sulle dimensioni concrete e reali della «casa» delle classi subalterne è rimasto affare di pochi studi, anche nei casi delle innovative ricostruzioni (si pensi alla stagione di ricerche su Roma) del conflitto sociale e politico sulla questione delle abitazioni, delle storie di quartiere o delle politiche pubbliche locali. A questo terzo filone fa riferimento La casa pubblica, concentrandosi su un caso davvero importante.

PREGIO DEL VOLUME è non fermarsi alla dimensione politica, nel senso giuridico e istituzionale, ma di calare il problema abitativo e la vicenda dello Iacp nell’intreccio di diversi attori, istituzionali e non, attivi sulla scena torinese. Sulla scorte dei suoi molti studi pregressi, Maria D’Amuri rilegge il lento passaggio dal mito della felice «coabitazione interclassista» negli stessi edifici, stratificati socialmente per piano, all’intervento municipale.

SOLLECITATA localmente dalle inchieste sul sovraffollamento e dalla parallela polemica socialista sulla «fame d’aria», la nascita dello Iacp subalpino risale al 1907, sull’onda della legge Luzzatti per le case popolari del 1903. Nei primi anni di attività costruì oltre 4500 vani, ma alla vigilia della guerra sospese le costruzioni, per difficoltà finanziarie dovute ai consueti problemi delle «case popolari» di tutto il mondo: alla morosità e alle condotte non previste degli inquilini si sommava il peso delle molte abitazioni rimaste vuote, perché troppo costose o perché isolate alla periferia urbana e senza servizi. Il periodo fra le due guerre, ricostruito dalla stessa D’Amuri, vede un rilancio delle costruzioni e un progressivo allargamento dell’azione dello Iacp, anche con piani di case «popolarissime» o «minime». A Torino gli inquilini erano in gran parte operai, con una quota significativa di dipendenti pubblici, ma l’uso discrezionale e clientelare della risorsa abitativa caratterizzò anche sotto la Mole la politica del regime.
L’emergenza postbellica, con migliaia di case pubbliche colpite dai bombardamenti, è delineata in un contributo di Daniela Adorni. Il disavanzo accresciuto, l’aumento del personale e la necessità di ricostruzione portarono nei primi anni Cinquanta allo sblocco degli affitti, cioè al loro aumento, contro cui gli inquilini entrarono in agitazione, con lo sciopero dei versamenti.

NULLA POTERONO le 7800 famiglie assegnatarie a fronte di un Istituto ora in mani democristiane e senza più rappresentanza degli inquilini negli organismi dirigenti. La stessa Adorni segue anche le vicende degli anni Cinquanta, con la ripresa delle costruzioni nel quadro del grande – ma insufficiente – piano Ina-Casa. Mentre sorgevano nuovi quartieri, come quelli delle Vallette e della Falchera, a Torino esistevano ancora vie di baraccati. L’esplosione urbana del boom non venne governata, se non dalla speculazione, mentre il blocco democristiano apriva al passaggio da locatari a proprietari.
Le vicende degli ultimi decenni sono infine delineate da Davide Tabor, che sposta più decisamente il piano dell’indagine sugli inquilini. Se si tratta di una preziosa prospettiva di metodo (la cara vecchia «storia dal basso», oggi generalmente misconosciuta), nel caso italiano risulta ancora più significativa: si tratta infatti di verificare se i finanziamenti esigui e la natura particolaristico-clientelare del welfare nostrano abbiano configurato una sorta di «scambio politico» fra risorsa-casa e consenso al governo nazionale e locale.

LA CONTINUA EMERGENZA abitativa della Torino del boom e dell’immigrazione di massa si dovette alla scarsissima offerta pubblica. Già nel 1946 interessava solo il 4% dei residenti. Gli oltre quarantamila nuovi alloggi pubblici (16% del costruito fra 1945 e 1977) andarono in maggioranza a proprietari, con quote minori di abitazioni in affitto e, in generale, ampia discrezionalità nell’assegnazione, con criteri spesso ben lontani dalla trasparenza e dall’egualitarismo. I caseggiati pubblici o «popolari» furono quindi «universi sociali complessi», con spiccate specificità e differenze, ma né ghetti (sotto)proletari, né quartieri residenziali di ceti medi (impiegati pubblici e privati) votanti Dc. L’assistenza abitativa riguardò meno di un terzo delle abitazioni pubbliche, vale a dire il 3% delle case esistenti alla fine degli anni Settanta. Tuttavia, lo scambio politico interessò solo una parte degli abitanti, come confermano i dati elettorali, forse anche grazie alla capacità di intervento e mobilitazione del Pci e, più in generale, della classe operaia torinese.

NELL’ULTIMO CONTRIBUTO, lo stesso Tabor rilegge il «modello di welfare partecipativo» creatosi negli anni Settanta e Ottanta. Radicato nell’esperienza di organizzazione e di lotta postbellica degli inquilini, rilanciato dai «comitati di quartiere» negli anni Sessanta, il movimento torinese fu alla base del primo sciopero provinciale unitario per la casa (poi ripreso a livello nazionale e riproposto nel 1971). Le risposte a questa fase conflittuale spostarono il livello della discussione. Riconosciuta la casa come «servizio sociale», vennero razionalizzate le assegnazioni e gli inquilini rientrarono nel governo degli Istituti.
La relativa democratizzazione spinse all’autogestione dei servizi (manutenzione, pulizie, riscaldamento), concessa finalmente dalla giunta di sinistra insediata nel 1975, che avviò la partecipazione al welfare. Resta da indagare la dissoluzione del modello negli anni Ottanta, fra crisi della militanza, clientelismo e corruzione. Ma quell’esperienza resta un punto di riferimento per pensare l’alternativa e contestare l’attuale dinamica di gentrificazione, espulsioni ed impoverimento diffuso, non certo contrastata dall’offerta di palliativi dai nomi inglesi in luogo di case e partecipazione.