L’Italia non è mai stata lontana dall’America. Milano lo è ancor meno: vuoi per la quasi innata vocazione internazionale, vuoi per il desiderio di rinnovamento che pervade sia la città sia i suoi abitanti. In particolar modo, a saldare le due realtà in un abbraccio è stata la consapevolezza di possedere un’idea di modernità che poteva esprimersi nel Novecento soltanto attraverso la condivisione di un immaginario collettivo, divenuto poi egemone nei consumi culturali. Cinema e pittura, scultura e musica, architettura e moda, e negli ultimi anni design, tv e cucina; per tacere delle relazioni d’affari e dei rapporti economici che le due sponde dell’Atlantico hanno intrattenuto per decenni e trovano inedita collocazione in New York New York Arte Italiana. La riscoperta dell’America, mostra policentrica per luoghi (il Museo del ’900 e Le gallerie d’Italia, catalogo Electa, vistabile fino al 17 settembre) e per selezione di opere.

QUEST’ULTIME VALORIZZATE dal percorso espositivo curato da Francesco Tedeschi che, da un lato, costruisce rapporti tra le collezioni comunali e la collezione di Banca Intesa Sanpaolo, prima sostenitrice dell’intero progetto, dall’altro illumina intere zone e protagonisti dell’arte italiana con nicchie monografiche, tra le quali si contano: i veneziani Vedova e Santomaso; il trasversale Capogrossi; un fascinoso quanto isolatissimo Scialoja, però salutato – nell’intera sala delle Gallerie d’Italia antologizzata dalle sue opere – addirittura da un «commosso» ritratto di Willem De Kooning (datato 1960 e proveniente dalla Fondazione del pittore e poeta del non-sense, come il delicato pastello dello sfortunato Gorky, ma già si risale agli anni ’40). E non va poi dimenticata la sua fondamentale presenza alle Biennali Arte che affondavano gli anni ’50 e inauguravano i ’60, celebrando il funerale dell’Espressionismo astratto americano, seppellito dalla Pop Art di Warhol e Rauschenberg; e come allora, allineato a Franz Kline, anch’egli presente con due tele, Mark Tobey e Philip Guston (quest’ultimi non a caso oggi celebrati a Venezia: l’uno per la prima volta in Italia nella sua schietta parabola artistica alla Peggy Guggenheim Collection, l’altro alle Gallerie dell’Accademia nella sua relazione con la letteratura e la poesia).

Curioso lo scambio postale d’auguri tridimensionale di Alberto Burri con il collezionista James Johns Sweeney, quasi uno storytelling progressivo dei suoi lavori, prontamente riportati in scala 1:1 dai sacchi e dalle combustioni esposte. E se diligente pare lo scavo sulla Pop Art all’italiana (Schifano, Pascali, Angeli), circoscritto sembra l’astrattismo lombardo (connotato dalla privata e straordinaria Vegetazione di Morlotti del ’58 che non sarebbe di certo dispiaciuta a Testori).
Ma c’è stato un inizio: per alcuni versi folgorante. Dettato dal Futurismo. Che parte dalla collezione presente al Museo del ‘900 con i suoi campioni: Balla, Boccioni (con opere scelte tra il ’12 e il ’15) e via via salendo a dei Carrà (un paio di disegni e una natura morta spalmati dal ’12 al ’17) e a un Morandi (i suoi Fiori del ’18 prestati dalla Pinacoteca di Brera) che già odoravano di Metafisica, ospedalizzata dalla Grande Guerra.

È CON FORTUNATO DEPERO, per restare al Futurismo, anche se alla sua seconda ondata, già scemata in più rivoli e irreggimentata dal Fascismo, che s’inaugura il moderno rapporto con la modernità americana, simboleggiata da New York e dalle sue mille luci. E vale la pena spostarsi poco più di un centinaio di km a sud di Milano, nel Parmense, alla Fondazione Magnani Rocca per vedere dispiegata tutta la «magia» del multiforme artista tridentino (Depero il mago fino al 2 luglio).
Mentre cade il suggerimento della trasferta parmigiana, la lunga teoria italo-nuovaiorchese viene folgorata da una gigantesca tela, fuori tempo massimo – è del 1979 – di Costantino Nivola, The Unbelievable City (da Museo Nivola di Orani) che nel termitaio umano di una delle avenue della «Grande Mela» interiorizza più di ogni aspirazione babelica di linguaggio (scivoloso il bisticcio di parole affastellato in due tele di Tancredi e Cagli di vent’anni e più prima) il fecondo viaggio di andata e ritorno dei nostri artisti alla «riscoperta dell’America».