Due bambine molestate pesantemente in un hotel sulla riva del mare da un uomo molto potente, l’unica testimone è una adolescente clandestina quella sera alla reception. Un avvocato donna cerca di difenderle, i genitori spaventati ritrattano, la madre di una delle ragazzine la incolpa di essere troppo provocante…

Le taglia i capelli, le distrugge l’armadio, la poverina trova conforto solo dal padre che vive in una giostra, e ai piedi della statua di plastica di Marilyn con la gonna bianca soffiata dal vento. Angels Wear White è il secondo film di Vivian Qu, produttrice e regista cinese, una metafora della Cina neoliberista, dove per i più deboli non c’è scampo, espressa attraverso una galleria di figure femminili sottoposte a ogni forma di martirio, visite ginecologiche fasulle, botte, prostituzione, umiliazioni, l’insulto anche dei familiari che accettano i soldi per mantenere il silenzio. «Se rinasco non voglio essere donna» piange la centralinista dell’hotel bella ragazza senza cervello completamente in balia di un bulletto locale che si spaccia per grande gangster.

Corruzione, violenza, mancanza di giustizia: nella società che nega ogni riscatto, e anche la più piccola via di fuga a chi non ha abbastanza potere, il corpo di queste bambine, e ragazze, diviene dunque l’emblema dell’ingiustizia. È attraverso la loro pena quotidiana che la regista cerca di mettere a fuoco le profonde diseguaglianze, e la perdita di ogni moralità provocate dallo sviluppo economico nel suo Paese. E procede implacabile, in un crescendo di colpi ma l’ accumulo di soprusi e il dispiegamento di simboli finiscono per intrappolare la geometria di tutto il film. Fragile, fragilissimo (chissà perché in concorso), a cominciare proprio dal racconto della Cina.