Ci sono stati diversi re nella Harlem nera ma una sola regina, Stephanie Sainte-Claire, «Queenie» nel resto di Manhattan, solo «M.me St-Claire» nel suo regno. Era arrivata a New York dalla Martinica a 26 anni, armata solo di un rasoio, di un talento naturale per le lingue che la avrebbe portata presto a conoscere un po’ tutti gli idiomi dell’underworld criminale di New York City e di qualche nozione culturale sopra la media. La madre aveva fatto il possibile per farla studiare e per qualche anno ci era anche riuscita, prima di cedere alla povertà e mandarla a servizio in una villa della Martinica bianca dove Stephanie era stata stuprata quasi ogni notte dal giovin signore di turno.
Stephanie era alta, segaligna e piatta come una tavola da surf, a suo modo bella ma di una bellezza opposta a quella imposta dai criteri soffici e sinuosi dell’epoca. Era dotata di un’intelligenza affilata come il suo rasoio e di uno spirito d’indipendenza che la avrebbe portata nonostante gli svantaggi, nera e donna e immigrata, a fronteggiare ragazzi tosti come Dutch Schulz, il gangster ebreo che per un po’ aveva colonizzato Harlem, e Lucky Luciano. Alla fine avrebbero reso il ghetto una colonia vassalla di Cosa nostra, con il braccio destro e amante di Stephanie «Bumpy Johnson» in veste di signore feudale.
Per decenni, fino ai ’70, Bumpy sarebbe stato onnipotente nel perimetro della città nera ma pur sempre vassallo dell’alleanza tra la mafia italiana e quella ebrea che dominava la Mela. Questo Stephanie non avrebbe mai potuto accettarlo. Preferì ritirarsi e dedicare il resto di una vita lunga e sempre agiata alla lotta per i diritti civili.

A NEW YORK c’era arrivata intorno al 1909 per la strada più lunga, passando per la Francia, dove era finita per inseguire un marinaio napoletano di volubile passione e dove era rimasta per soli sette mesi prima di ripercorrere l’Atlantico a ritroso. Sempre che sia vero. Queenie non era nota per la sincerità. Inventava, costruiva la propria favola e la propria leggenda intrecciando la realtà con un immaginazione che anche dopo decenni di Usa restava essenzialmente caraibico. Chi può dire se davvero aveva evirato il capo della banda irlandese dei 40 ladri, all’epoca una potenza nei Five Points, o se abbia realmente ucciso a rasoiate il suo primo complice nello smercio dell’alcol clandestino, durante il proibizionismo?

Qualche certezza però c’è. Appena sbarcata nella nuova terra Queenie era andata per un po’ a vivere con una famiglia di straccioni irlandesi nei Five Points. Certamente aveva fatto parte della banda dei 40, probabilmente in veste di «basista», facendosi assumere nei locali che poi la banda svaligiava. Col proibizionismo si era messa in commercio su piccola scala, tirando fuori l’alcol da un composto medico. Il risultato non era privo di controindicazioni, capitava che lasciasse a volte paralizzati i consumatori. Ma, pur non avendo niente a che vedere con i dollari a palate che tiravano fuori le gangs italiane e ebree, le fornì comunque il capitale necessario per mettersi in affari nei «numbers», la lotteria clandestina che era allora il business principale ad Harlem.

I GANGSTER che si arricchivano con l’alcol non erano interessati, negli anni ’20, a quello che doveva sembrargli un giro di spiccetti. Queenie arrivò rapidamente in cima. Praticamente l’intera lotteria clandestina finì sotto il suo controllo. Regnò per tutta l’età del jazz e oltre. Viveva a Sugar Hill, la zona di lusso di Harlem, in un palazzo tra i più alti e lussuosi di Manhattan, con vicini di pianerottolo come il grande intellettuale nero W. E. Du Bois. Frequentava i nomi scintillanti della Harlem Renaissance, era popolarissima sui giornali.

LA FESTA FINÌ con la morte del proibizionismo. Le organizzazioni criminali, rimaste all’asciutto, volsero lo sguardo verso Harlem. Lucky Luciano, uscito trionfatore dalla «guerra di Castallammare», aveva dato a Cosa nostra l’assetto che avrebbe poi mantenuto per sempre. Le organizzazioni mafiose e quelle ebree si erano unite in quello che sarebbe poi stato definite il National Crime Syndicate, una sorta di governo dell’underworld criminale in tutti gli states. Dutch Schultz decise di prendersi Harlem.
Non aveva la sottigliezza che faceva di Luciano una specie di uomo di stato del mondo criminale né la diabolica astuzia che permise a Meyer Lansky di restare per decenni ai vertici del crimine senza passare un solo giorno in galera. Schultz conosceva solo il martello e lo adoperò. Cosparse le strade di Harlem di cadaveri. Sfruttò l’appoggio di una polizia corrotta per mettere alle corde l’organizzazione di Queenie e di Bumpy Johnson, un mazziere che aveva passato metà della vita in galera.

MADAME STEPHANIE gli tenne testa. Denunciò pubblicamente sui giornali la corruzione della polizia, rispose agli omicidi con gli omicidi finché Schultz non fu condannato a morte da Luciano. Mentre agonizzava Queenie gli inviò un telegramma: «As Ye Sow, So Shall Ye Reap», Quel che semini raccogli. Ma la morte di Schultz mise anche fine all’ «indipendenza» di Harlem. Luciano e Lansky presero il suo posto. Offrirono una ricca percentuale, si misero d’accordo con Bumpy ma non lasciarono dubbi su chi avrebbe comandato da quel momento in poi. M.me St-Claire passò la mano.

S’INNAMORÒ del pittoresco Sufi Abdul Amid, un predicatore musulmano e antisemita descritto dalla stampa come l’«Hitler nero». Lo sposò, ne fu tradita, gli sparò (senza ammazzarlo), passò qualche anno in galera. Uscì presto, ancora ricca e passò decenni a battersi per i neri e per le donne.
Madame St-Clair. La regina di Harlem, di Raphaël Confiant (Stampa alternativa, pp. 237, euro 20, traduzione Valentina Palombi), racconta la storia di Queenie senza volerne essere una biografia. Confiant, scrittore e saggista della Martinica, non ha fatto ricerche per verificare i racconti del suo personaggio. Ha fatto narrare da Stephanie la sua vita in prima persona, con una lunga lettera al nipote, come usava fare davvero lei, prima di scomparire, a 83 anni, nel 1969. Con tutte le leggende, le irruzioni della magia caraibica, probabilmente le bugie. Confiant è il principale esponente di una letteratura che rivendica ed esalta la specificità creola. Scrive in francese ma secondo una struttura che cerca di rendere l’essenza del patois creolo, tanto più in un romanzo che vuole restituire il ritmo del parlato più che della parola scritta.

NONOSTANTE NEL LIBRO compaiono tutti i nomi del gotha malavitoso, per Confiant la parabola di Queenie non è una vicenda di mafia. Più che l’odore della polvere da sparo si avvertono quelli delle strade affollate dei Five Points, delle catapecchie dove si ammassavano gli immigrati, delle strade di Harlem.
L’ascesa di Queenie registra e demistifica l’inseguimento di un sogno americano conquistato sovvertendo le regole. Queenie è orgogliosa di essere nera in un mondo dominato dai bianchi, fiera di essere donna in un assetto che alle femmine, anche nell’underworld, assegnava solo ruoli di margine spesso circoscritti al mercato del sesso. Si sente e vuole essere considerata creola, «la francese», e non americana. Più che regina di Harlem, per Confiant, Stephanie è una pioniera.