Nonostante l’«algoritmo» di Netflix non l’abbia inserita tra le visioni top in piattaforma, Queen Sono è una di quelle operazioni su cui punta con particolare cura. A dimostrarlo è già il lancio che l’ha pubblicizzata: «La prima serie africana prodotta da Netflix», il Black Lives Matter non c’entra, o almeno non direttamente visto che Queen Sono di cui è annunciata una seconda stagione, è arrivata in streaming lo scorso febbraio – seguita a maggio da Blood and Water secondo titolo di una serialità« al 100% africana» – anche se l’iniziativa rimanda naturalmente alla politica (e al marketing) della multinazionale riguardo temi e situazioni che nel momento sono considerati «importanti» .

È dunque l’Africa al centro di questa operazione produttiva che inizia nel 2016 e ha in cantiere altre cinque serie. «Il nostro obiettivo è quello di aiutare gli africani a raccontare le loro incredibili storie. Da sempre il continente africano viene rappresentato soltanto come un luogo di sofferenze, noi pensiamo invece che ci sia molto altro per questo desideriamo offrire storie ottimiste, affascinanti, contenuti differenziati con cui attraversare più generi: dalle serie romantiche come Blood and Water ai film d’azione, ai thriller all’animazione di cui è un ottimo esempio Mama K’s Team. E soprattutto vogliamo produrre commedie perché anche in Africa si ride, e ci sono tante cose da mostrare al resto del mondo» spiegava in un’ intervista al quotidiano «Le Monde» Dororthy Gettuba, responsabile dei contenuti per l’Africa subsahariana.

INSOMMA se da una parte la «sovrimpressione» dei soggetti viene guidata da esigenze esterne, come spesso è accaduto nella produzione di immagini dell’Africa, dall’altra la novità rispetto a esperienze del passato è quella di lavorare con equipe tutte africane: sceneggiatori, registi, attrici, attori, ma anche direttori della fotografia, costumisti, truccatori, cosa che permette la formazione di professionalità a garanzia futura – anche in altri campi come il cinema – di maggiore autonomia. Queen Sono è stata realizzata in Sudafrica dove le risorse tecniche sono maggiori – la regia è di Kagiso Lediga, attore e regista tra i più conosciuti del Paese – ma si sta lavorando a altri progetti pensati per la Nigeria, e in futuro si parla del Kenya.

Chi è dunque Queen Sono, col look che sembra ammiccare alla Blaxploitation più che alle immagini del cinema africano delle nuove onde? Una giovane donna – Pearl Thusi (già apparsa in Quantico) – molto affascinante e dall’identità misteriosa, figlia di una leader rivoluzionaria anti-apartheid assassinata negli anni Ottanta, è arruolata nel SOG – Special Operations Group, un’unità operativa d’élite impiantata a Johannesburg. e che mentre indaga deve confrontarsi anche con grandi dolori personali. Le scene d’azione si mescolano al noir, e accolgono riferimenti politici alla situazione sudafricana (neocolonialismo, corruzione dei governanti, zone grigie di nepotismi, divisioni mai superate, violenze, intrighi nel partito al potere, l’Anc) mentre la storyline principale subisce nel corso dei sei episodi della stagione conclusa alcuni detour, con apparizioni di personaggi eccentrici e paesaggi inaspettati.

Il «format» Netflix viene a tratti un po’ rivisitato in una prospettiva più vicina ai luoghi e dalle loro atmosfere, aprendo a potenzialità interessanti in uno straniamento che gli permette un rapporto più diretto con la realtà del presente a cui vuole guardare.

A CITTÀ DEL CAPO si ambienta invece Blood and Water, serie adolescenziale con qualche incursione nella storia sudafricana – una liceale, Puleng Khumalo, cerca la sorella maggiore che non ha mai conosciuto perché sparita alla nascita, e che è convinta sia la ragazza più popolare della sua scuola. Il cast è tutto di giovanissimi – la protagonista è un’esordiente, Ama Qamata – e la regia di una giovane filmmaker, Nosipho Dumisa. Anche per questa si prevede una nuova stagione.