A una prima lettura il terzo film del regista indiano di etnia Tamil, Vetri Maaran, Visaaranai (Interrogatorio), presentato nella sezione Orizzonti, potrebbe apparire come un’opera dedicata fondamentalmente alla drammatica questione dell’immigrazione. Un gruppo di giovani Tamil fugge dalla propria regione per cercare fortuna nello stato indiano centro orientale dell’Andhra Pradesh. Un tentativo di emergere che si traduce nei pochi soldi ricavati da lavori sottopagati, in una condizione di vera e propria ghettizzazione, in un continuo mandar giù umiliazioni su umiliazioni. Dunque, un film realizzato in una terra lontana, con fenomeni sociali molto distanti dai nostri, con conflitti poco trattati da queste parti e che, tuttavia, propone una tragedia umana a noi molto nota.

A una seconda lettura potremmo pensare a un dramma giudiziario. I protagonisti Pandi, Murugan, Afsal e Kumar (a quest’ultimo, diventato poi un attivista per i diritti dei Tamil, dobbiamo la storia con il suo libro testimonianza, Lock Up, da cui è tratto il film) vengono arrestati perché ritenuti colpevoli di qualcosa che al momento sfugge sia a loro che a noi spettatori. Forse Pandi ha osato troppo con una ragazza manifestandole un interesse troppo evidente. Forse la polizia li ritiene collegati a una pericolosa cellula terrorista. In realtà, il crimine del quale sono accusati è una rapina in una villa ai danni di un pezzo grosso. E loro sono i colpevoli ideali, se solo ammettessero la colpa. Stranamente nei sottotitoli inglesi e italiani si ripete continuamente il verbo «accettare», forse alludendo all’esito di una trattativa tra accusatori e accusati: «ammettete il reato, vi fate tre mesi di carcere e siamo tutti contenti e felici». Ma Pandi e i suoi amici hanno uno scatto d’orgoglio e non ammettono, non accettano.

A una terza lettura, Visaaranai è un lavoro che denuncia i soprusi della polizia nei confronti di poveri immigrati che vengono pestati a sangue affinché confessino qualcosa che non hanno fatto, solo per soddisfare la presunta sete di giustizia dell’opinione pubblica e di un sistema burocratico che si autosostiene con l’uso della violenza. Assistiamo a vere e proprie brutalizzazioni senza alcun uso della metafora, al punto che la violenza da mezzo pare diventare il fine di questo agire. La regia si sofferma, e forse indugia anche troppo, sui corpi sfigurati dei malcapitati e iniziamo a chiederci se questo film non sia stato realizzato per un pubblico lontano dall’India, festivaliero e poco propenso a trasferire l’indignazione oltre i confini della sala. Se qui in Italia non appena si accenna alla violenza (dimostrata) delle forze dell’ordine, si scatena una reazione sconsiderata da parte dei sindacati di categoria e di politici evidentemente affascinati dall’uso del manganello, cosa può accadere in India davanti all’evidenza di immagini che ritraggono atti così violenti da parte di agenti di polizia, per di più coperti da politici che ordinano omicidi? Di fatto gli squarci nella pelle, il sangue, i denti saltati, riconducono lo spettatore a Genova e in altri luoghi più familiari.

A una quarta lettura, questo lavoro su immigrazione, giustizia malata e stato di polizia, si trasforma in un thriller nel quale la corruzione pervade l’intero sistema politico. In un susseguirsi di eventi, di cambi di scenari, i quattro sciagurati si trovano alle prese con una storia non più legata a un furto. Ora sono in gioco interessi molto più alti e qui dobbiamo fermarci se mai capitasse che questo film oltrepassasse la frontiera dei festival per migrare nelle sale.
Naturalmente esiste un’ulteriore lettura. Stiamo comunque seguendo la storia di persone che agiscono e reagiscono, che prendono una posizione o semplicemente sono costretti a subire il corso degli eventi senza alcuna possibilità di sovvertire la propria condizione. E alla fine, al di là dei generi cinematografici, delle scelte narrative, sono proprio le storie di questi quattro uomini a dover esser lette