«Hollywood veste il manque» scriveva tanti anni fa Renato Tomasino sul n.1 d’una rivista trimestrale,]Fiction, che facemmo uscire nell’estate del 1977, dedicata al cinema e alle pratiche dell’Immaginario (nel senso di Lacan) e andata avanti perigliosamente, senza appoggi finanziari né accademici, per soli cinque numeri. Di quale manque, di quale mancanza, parlava Tomasino? In che senso Hollywood tentava di vestirla? Si trattava di ri-vestire i corpi delle Star (dive e divi), di inguainarli in mises, abiti, costumi, divise, acconciature, che facessero corpo con i corpi, in modo da rendere accettabile, nei limiti del possibile, il fatto che la seduzione massima, lo splendore dell’incantamento erotico, si danno soprattutto come eccitanti prodotti di una castrazione simbolica, o almeno, di una rinuncia (magari provvisoria) alla fase che comunemente viene chiamata della «soddisfazione» (non a caso, quel primo numero di Fiction recava come sottotitolo «sull’Insoddisfazione»).

Più di 35 anni dopo, Tomasino (accademico mai accademico), seguita a interrogarsi sulla seduzione dei corpi gloriosi, di quei corpi da Sirene che, restando carnali, misteriosamente indicano un oltre della carne: non in direzione del cosiddetto Spirito, che non si sa chi l’abbia inventato (o forse lo si sa anche troppo bene), ma della Finzione, regno delle Maschere e dei Simulacri. Quattro Sirene è il titolo del libro (edito da Falsopiano, 2014), anzi, più precisamente, è il sottotitolo, perché il titolo si limita a elencare i nomi: Abbe Lane, Mirella Freni, Valeria Moriconi, Amy Wunehouse, delle Sirene di cui si tratta – un libro dalla scrittura seducente su 4 seduttrici, figure ammalianti emerse da diverse pratiche dell’immaginario, anche al di fuori della vecchia fabbrica hollywoodiana.

Quella di Tomasino è una scrittura che ammalia, che canta di Sirene con voce di Sirena, che ne scruta le performances sul palcoscenico con uno sguardo talmente partecipe da potersi dire carnale. Credo sia davvero difficile, a questo proposito, trovare esempi altrettanto efficaci d’una scrittura per il cui tramite si glorifica il fascino della seduzione e, al tempo stesso, l’abisso che può spalancarsi sotto i piedi di chi la esercita e di chi la subisce (ma chi la esercita anche, assai spesso, la subisce).

Quattro Sirene, quattro storie diverse, in cui peraltro i procedimenti della seduzione teatrale si mostrano quasi allo stato puro (e, nel caso di Amy Winehouse, con ricadute tragiche sulla vita stessa). Non conta molto, a questo proposito, che due di queste storie (Abbe Lane, Amy Winehouse) abbiano a che fare con le pratiche che la critica accademica chiama sdegnosamente «basse» (il varietà, la tv, i concerti rock), e due (Freni, Moriconi) ostentino la loro appartenenza ai piani «alti» della Cultura (melodramma, teatro di prosa). Più importante è sapere se queste incantatrici (nel senso di Starobinski) abbiano avuto o no bisogno di Padri (di Mentori, di Pigmalioni), in un tipo di rapporto spesso esplicitamente edipico. Probabilmente non ci sarebbe stata Abbe Lane, stella dei night e della tv, senza la guida sorniona di Xavier Cugat, né Valeria Moriconi avrebbe forse raggiunto i suoi traguardi di interprete prestigiosa senza gli incantamenti esercitati su Franco Enriquez, che sembravano ri-citare, in maniera straordinaria, quelli già utilizzati dalla Locandiera di Goldoni nei confronti del rustico cavaliere di Ripafratta. E la fine di Amy, provocata da un’infinità di circostanze, trova forse il suo tragico compimento nel rapporto disperato con Blake Filder, «giovane, attraente ’carogna’ dai capelli ispidi e i beffardi occhi di ghiaccio».

Mirella Freni, invece, non avrebbe potuto sprecare in ogni caso il dono naturale della sua voce, indipendentemente dall’incontro artistico con Karajan: ma allora, come per Moriconi/Locandiera, Tomasino lascia slittare la figura dell’interprete fino a farla coincidere con il suo ruolo più famoso, la Madama Butterfly di Puccini, di cui opera un’analisi accurata, approfittando della trasposizione video di Jean Pierre Ponnelle. Al di là d’ogni giapponeseria di maniera, scrive Tomasino: «Non a caso il ruolo dello Shite, protagonista unico del Nõ, è sempre quello dello spettro che torna a manifestarsi dolente ai mortali: «attore» e «spettro» vi costituiscono una sinonimia…», cosicché il marinaio Pinkerton, in realtà, si invaghisce «del trucco, dell’acconciatura, del costume, delle maniere della sua gheisha, incapricciandosi insomma del «fantasma di donna orientale» che lei gli rappresenta».

Il punto è che, se esiste una sinonimia tra attore (attrice) e spettro, parlare di seduzione teatrale costituisce un ossimoro: non c’è seduzione, se non c’è l’oltre indotto dalle tecniche teatrali di trasfigurazione del corpo, e non c’è trasfigurazione senza la messa in opera di queste tecniche, perfino quando esse sembrano ridursi a un presunto grado zero. Nel teatro, nel cinema, in tutte le pratiche in cui entra in gioco il corpo (fosse pure, al limite, corpo fantasma), è questione, ribadisce Tomasino, di tecniche e di artifici, di acconciature, di maquillage, di posture più o meno (in)naturali, di costumi più o meno (in)distinguibili dalla pelle. La verità, con tutti i suoi nessi, si lascia scoprire solo nel nodo che la stringe al falso.