La questione della pena, per sua natura complessa, va sottratta a scontati stereotipi interpretativi. Reato e pena vanno indagati senza le certezze apodittiche di chi confonde il reato con il reo e la pena con la vendetta. Per comprendere fino in fondo l’antropologia del crimine e del carcere è necessario investire nel dialogo tra campi epistemologici diversi.

Marta Cartabia, la prima presidente donna della Corte Costituzionale in Italia, e Adolfo Ceretti, criminologo e studioso di giustizia riparativa da decenni, in Un’altra storia inizia qui (Bompiani, pp.128, euro 10), attraverso le parole e i pensieri di Carlo Maria Martini, ci regalano un’opera di igiene e mitezza di linguaggio, quanto mai necessaria in un momento storico nel quale la lingua dell’odio e della brutalità ha investito anche il pianeta del carcere. Si pensi ad espressioni incostituzionali e violente come «marcire in galera» o «buttare la chiave» che hanno monopolizzato il dibattito pubblico con incursioni finanche istituzionali.

NELL’AMBITO DEL LIBRO si possono selezionare quattro parole chiave – crudeltà, dignità, visita, riconciliazione – essenziali nel pensiero degli autori, nonché fulcro dell’idea di giustizia del cardinale Carlo Maria Martini. Parole, che nel libro sono trattate con delicatezza e profondità di scrittura, nella consapevolezza che la giustizia non sia qualcosa per soli tribunali o prigioni, ma che sia parte della vita e della comunità.

Crudeltà: al diritto penale va restituito quel suo originario scopo diretto a minimizzare la violenza dei delitti e la crudeltà delle pene. «Di fronte alla delinquenza e al crimine, è necessario reagire, opponendosi al male, senza per altro compiere altri mali e altre violenze» (Martini, 2001). Non di rado si intravede nella società una sorta di indifferenza o compiacimento di fronte alla sofferenza del carcerato. Augurare a una persona, chiunque sia, di marcire in galera significa sperare che vada in putrefazione, che subisca un irrimediabile decadimento fisico e psichico. Alla crudeltà delle pene si contrappone quella dolcezza di cui scrisse oltre 250 anni addietro Cesare Beccaria.

DIGNITÀ: il diritto internazionale proibisce la tortura e tutte le pene o i trattamenti disumani e degradanti. La crudeltà fa parte dunque dello stesso campo giuridico e semantico della degradazione e della disumanità. L’umanità, recuperando il pensiero kantiano, non è altro che la dignità umana. Quest’ultima ha una sua definizione di carattere negativo: l’individuo non deve essere mai degradato a cosa; è sempre fine, mai mezzo. Le Corti supreme hanno usato il grimaldello della dignità umana per porre limiti agli arbitrii punitivi.

NEL NOME della dignità umana, come ricorda Marta Cartabia, la nostra Corte Costituzionale ha organizzato un viaggio di conoscenza e testimonianza nelle carceri italiane.

Visita: la pena non è solo quella raccontata nei codici ma anche quella che si percepisce attraverso i propri occhi, sentendo gli odori e ascoltando i silenzi o i rumori del carcere. «Venendo a Milano, ho voluto iniziare la visita pastorale alla città e alla diocesi cominciando proprio dal carcere di san Vittore…Mi urgevano e mi urgono dentro le parole di Gesù: ero in carcere e mi avete visitato» (Martini, 2003). Bisogna aver visto per poter capire cos’è la pena del carcere, come ci ha insegnato Pietro Calamandrei.

INFINE, RICONCILIAZIONE. La giustizia per gli autori deve contribuire alla riconquista della solidarietà perduta. Il carcere, pur nella sua inevitabile residuale necessità, non riesce a ricomporre le fratture, anzi le alimenta, le riproduce su più ampia scala. La riconciliazione, secondo Carlo Maria Martini, serve ad evitare che si confonda in eterno il reo con il suo reato. In un altro intenso volume autobiografico Il Diavolo mi accarezza i capelli. Memoria di un criminologo (Il Saggiatore) Adolfo Ceretti e Niccolò Nisivoccia ci aiutano a entrare nella filosofia e nella pratica della mediazione, quale risposta nonviolenta ai traumi prodotti dal delitto. Speriamo, dunque, che un’altra giustizia ricominci a partire dalle parole stesse di Cartabia e Ceretti.