Durante un interrogatorio non si può bere il caffè. Un bicchiere d’acqua sì, ma lo va a prendere il maresciallo. Un’istantanea per tutte dall’incontro tra i pm Agostino Abate e Sara Arduini con Alberto Biggiogero, l’unico testimone presente nella caserma di via Saffi a Varese la notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, l’ultima vissuta da Giuseppe Uva. La prima audizione, avvenuta a 5 anni dai fatti, cominciata alle 12,07 del 26 novembre scorso e finita alle 15,50, è uno spaccato grottesco su un’indagine che non vuole cominciare. A nulla sono servite le parole del giudice Orazio Muscato e del Gip Giuseppe Battarino, che in più occasioni hanno invitato gli investigatori ad approfondire quanto accaduto in caserma: per la procura di Varese, Uva non è morto per le botte («presunte») degli agenti durante la custodia. Proprio per le indagini «negligenti», Abate è al centro di un procedimento disciplinare del Csm.

Finiti di nuovo nel registro degli indagati, i due carabinieri e sei poliziotti che quella notte fermarono i due amici planano verso una nuova archiviazione. Abate è convinto che l’uomo sia morto per le sue «precarie condizioni di vita» e che i segni delle botte se li sia procurati da solo. Tesi confermata dal pm anche durante l’interrogatorio di Biggiogero, quasi 4 ore di terrore per il teste: zittito, messo con le spalle al muro, mortificato, costretto a rivivere problemi che appartengono alla sua vita precedente e che nulla hanno a che fare con il caso, preda di ogni giochino logico dell’investigatore. Scorrendo le 257 pagine d’interrogatorio, finite nel fascicolo numero 5509/09, è facile rendersi conto che Biggiogero non sia stato messo nelle condizioni di raccontare quello che sapeva. Quando, a un certo punto, il teste prova a ripetere quello che, secondo lui, è il motivo per cui gli uomini in divisa si sarebbero accaniti sul suo amico Giuseppe – cioè che fosse l’amante della moglie di un carabiniere -, Abate lo ferma: «La smetta su questo argomento, che è solo infamante». E ancora: «Non si faccia latore di calunnie verso terzi, pena la diffamazione». Biggiogero non può nemmeno sostenere che ci sia stato un pestaggio in caserma, il pm è perentorio: «Non ci fu alcuna violenza».

In altri momenti il colloquio tocca vette di surrealismo, come durante i minuti passati a discutere dell’esclamazione «Ahia!», che il testimone avrebbe sentito in caserma ma che l’investigatore scarta: «Lei nella querela scrive “le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme ai colpi del rumore sordo”… Non ha mai scritto, non ha mai detto “ahia, ahia, ahia”». Giù fino alla sceneggiata del caffè. Biggiogero chiede se può averne uno. Abate dice no e affonda il colpo: «Non è che ha bisogno di prendere il caffè, il caffè non è previsto in nessuna terapia medica. Facciamo finta di non aver sentito. Lei è tremendo, ha avuto il coraggio di chiederci il caffè. Io rimango sconvolto. Ha bisogno di droga? Il caffè è caffeina. E lei ha bisogno di doparsi in questo momento per fare la dichiarazione?». Decine di minuti dopo, al testimone viene almeno concesso un bicchiere d’acqua. «Biggiogero – commenta Adriano Chiarelli, autore del documentario Nei secoli fedele sul caso Uva – è stato interrogato con una certa pressione, ma ha dimostrato un aplomb che nessuno sospettava, restando fermo sulla versione che riporta fedelmente da anni. Questo è ciò che conta».

La teatralità dell’interrogatorio è evidente, quasi cercata dal pm, così l’associazione «A buon diritto» sta caricando in questi giorni su Youtube la webserie Anatomia di un interrogatorio, un montaggio a puntate del video dell’incontro tra Abate e Biggiogero. L’effetto che fa è straniante; può sembrare opera di Ionesco, un dietro le quinte di Twin Peaks, o una versione particolarmente degradante del Grande Fratello. Può sembrare molte cose, tranne quello che è davvero: un interrogatorio.