L’immaginario visionario di Shirin Neshat e Shoja Azari nel film Donne senza uomini (2009), ispirato all’omonimo romanzo della scrittrice iraniana Sharnush Parsipur, rimanda a un giardino fiorito in cui quattro donne molto diverse tra loro – Zarin, Munis, Faezeh e Farokh Legha – si raccontano, confrontandosi e trovando reciproco conforto. Un’utile metafora per introdurre il lavoro di Ghada Amer (è nata al Cairo nel 1963, ha vissuto in Francia dall’età di 11 anni e dagli anni ’90 si è trasferita a New York), Yto Barrada (è nata a Parigi nel 1971 da genitori marocchini e ha vissuto tra Parigi e Tangeri, dove nel 2006 ha fondato la Cinémathèque. Attualmente risiede a New York e divide lo studio a Brooklyn con la fiber artist Victoria Manganiello: entrambe sperimentano aspetti della pratica artistica legati alla tessitura e alla tintura) e Latifa Echakhch (è nata a El Khnansa, Marocco nel 1974, vive e lavora a Fully in Svizzera): tre artiste provenienti dal Nordafrica che, come l’iraniana Shirin Neshat (ma per ragioni diverse), vivono altrove pur mantenendo un legame fortissimo con il loro paese d’origine, nutriente fonte d’ispirazione e argomento di analisi critica e discussione politica che va oltre i confini nazionali.

Ognuna di loro racconta il proprio giardino: microcosmi profondamente connessi con la partecipazione emotiva e l’impegno sociale, cartografie di una contemporaneità condivisibile. Per Latifa Echakhch si tratta di un «giardino meccanico», come suggerisce il titolo stesso della mostra Latifa Echakhch, le jardin mécanique al Nouveau Musée National de Monaco – Villa Sauber (fino al 28 ottobre 2018), mentre per Yto Barrada – anche lei presente nello stesso museo con Le Salon géologique (in collaborazione con Stéphanie Marin) – è «il giardino della tintura». The Dye Garden è il titolo della mostra conclusasi recentemente all’American Academy di Roma, in cui sono stati presentati il cortometraggio e il libro d’artista Tree Identification for Beginners (2017), realizzati per Performa 17 proprio durante la residenza di Barrada presso l’istituzione americana; il Giardino delle Tinture è anche il nuovo ambizioso progetto che l’artista intende realizzare nella città di Tangeri, elaborato partendo dall’ispirazione del giardino dell’artista dadaista Hannah Höch, icona femminista ante litteram, nella sua casa nel quartiere berlinese di Heiligensee. Il giardino è «un campo da gioco», infine, per Ghada Amer – conosciuta soprattutto per le sue tele ricamate, un modo per dipingere senza l’utilizzo della pittura affrontando temi legati all’identità femminile: dalla percezione del corpo all’estremismo religioso, dall’erotismo alla pornografia – il cui lavoro contempla il soggetto del giardino fin da Love Park, il romantico (ma ambiguo) sentiero realizzato nel 1999 in un giardino abbandonato di Santa Fe, New Mexico. A seguire numerosi altri, tra cui Women’s Qualities (2000) al Metropolitan Museum of Pusan, in Corea del Sud, dove ha fatto fiorire parole solitamente usate per descrivere le qualità femminili, come docile, dolce, vergine tradotte in coreano. Per Peace Garden (2002) all’Orto Botanico di Miami, il simbolo universale della pace (disegnato da Gerald Holtom nel 1958 per la Campagna per il disarmo nucleare), è realizzato con piante carnivore. A seguire Love Grave (2003) all’Indianapolis Museum of Art, S’il pleuvait des larmes (2003) alla Certosa di Padula e Happily Ever After (2005) al Queens Museum of Art di New York. Il giardino realizzato nel 2000 in Francia per il parco di Château du Rivau (uno dei tre creati per la personale Ghada Amer, Monograph and Gardens) è anche quello ricreato per la mostra all’Cccod – Centre de création contemporaine Olivier Debré di Tours (in collaborazione con la galleria newyorkese Cheim & Read) che prevede due esposizioni: Dark Continent (fino al 4 novembre) e Cactus painting (fino al 6 gennaio 2019) con i suoi 16 mila cactus di forme e colori diversi che definiscono un motivo ornamentale sul pavimento dello spazio espositivo. Un manifesto anti maschilista in cui è stata la stessa artista a coniare il termine «phactus», unendo le parole phallus (fallo) e cactus. La chiave d’interpretazione dell’installazione è la riappropriazione di uno spazio al femminile all’interno della scena della storia dell’arte occidentale, esclusivo appannaggio degli uomini, bianchi e anglosassoni: in particolare il riferimento è alla pittura americana del dopoguerra (astrattismo, minimalismo) con artisti come Josef Albers e Frank Stella. La monumentalità esemplare del cactus – pianta abituata a resistere nello spazio e nel tempo – nella sua opera è anche lo strumento per tradurre il concetto di vitalità e sopravvivenza con un approccio estetico scultoreo. I cactus stanno a Ghada e Latifa come la palma a Yto, autrice di diverse versioni di Green Palm, scultura dalla struttura metallica che raffigura una versione pop della palma, pianta che per gli antichi romani simboleggiava la vittoria, che racchiude in sé da una parte l’essenza dell’esotismo e dall’altra la normalità della sua presenza nello scenario autoctono. L’artista franco-marocchina ha trasformato la silhouette di queste piante della famiglia delle Arecacee (il genere Phoenix è tra le più comuni) in una colorata insegna luminosa, innescando quesiti che riguardano agricoltura, alimentazione e urbanistica: dall’olio di palma al nomadismo dell’albero stesso, trapiantato per scopi decorativi in luoghi geografici lontani.

Anche nei cactus di Latifa Echakhch, realizzati appositamente per la mostra di Monaco, viene indagata la componente esotica dell’aspetto innaturale legato alla creazione del noto Giardino Esotico, concepito nel 1933 dall’ingegnere monegasco Louis Notari come potenziale fonte d’attrazione turistica del principato, inserendo elementi di finta roccia e varietà botaniche non autoctone su una vera roccia a strapiombo, in un panorama naturale di tipo mediterraneo. Con delicatezza e fermezza Echakhch decostruisce l’immaginario collettivo prendendo in prestito le vecchie cartoline postali: souvenir de voyage a cui veniva demandata la conoscenza e popolarità del giardino stesso. Dalla pittura nera che ricopre interamente le grandi tele, sovrapposta allo strato di cemento grigio – base su cui l’artista proietta le immagini d’epoca – che traccia con rapide pennellate immerse nel colore, asportando via via con la spatola alcuni strati di pittura. Il contrasto tra i colori brillanti delle piante esotiche e il grigio compatto che affiora dallo strato interno rimanda ad una visione metaforica del luogo stesso di Monaco, dove la vegetazione rigogliosa deve fare i conti con l’assediante cementificazione. Elementi artificiali perfettamente integrati con la natura più autentica, quindi, in cui è labile il confine tra vero e falso. Una tematica che viene affrontata anche nella sezione della mostra dedicata ad altri luoghi emblematici come l’Opéra House, realizzata nel 1879 dall’architetto Charles Garnier e la stessa Villa Sauber (appartenuta al pittore inglese Robert Sauber), che in passato ha ospitato la collezione privata di Madame de Galéa dedicata agli automi meccanici e alle bambole antiche. In questo contesto la natura è un paesaggio/passaggio scenico e teatrale da cui affiorano anche rovine d’impronta romantica. Un itinerario percorribile in cui le installazioni, ribaltando la scala originale, da un lato ricreano imponenti frammenti di scenografie (disegni preparatori e maquette come la decorazione realizzata nel 1919 da Alphonse Visconti, capo scenografo dell’Opéra di Montecarlo, per Masques et Bergamasques) e dall’altro svelano il retro delle strutture lignee stesse, dipinte di nero che definiscono un nuovo spazio fisico che dialoga con la vivacità cromatica delle mappe geologiche e litoligiche del Marocco a cui s’ispira Yto Barrada per Le Salon géologique. Nell’installazione c’è posto anche per il film 16mm A guide to Trees for Governors and Gardeners (2014) che inquadra Gran Royal Turismo (entrato nelle collezioni del Nmnm), in cui la grammatica del potere e del controllo è definita dalla messinscena. Nel modellino automatizzato di cartapesta è ricreato il momento dell’arrivo di una delegazione politica in una cittadina del Marocco. Al passaggio delle autovetture nere improvvisamente spuntano dal suolo le palme rigogliose, sventolano le bandiere rosse con la stella verde, i lampioni s’illuminano e il degrado urbano viene scenograficamente cancellato e sostituito dall’ordine e dal finto benessere. Una visione utopica fatta di falsità e promesse mai mantenute.