La Palestina esiste, non solo sulla carta. All’Expo, all’Onu, alla Corte penale internazionale, nello sport. In questi giorni, ad esempio, la nazionale di pallacanestro palestinese ha battuto nettamente Filippine, Honk Kong e Kuwait in match per il titolo asiatico della Fiba. E qualche settimana fa la nazionale di calcio palestinese, in una partita per le qualificazioni ai Mondiali, ha fermato sul pareggio i più talentuosi Emirati. E in giro se ne parla, come della bandiera palestinese che sventolerà tra qualche giorno al Palazzo di Vetro. Il governo Netanyahu invece non riconosce il diritto ad esistere della Palestina. Per il premier israeliano e i suoi ministri piuttosto è cominciata un’altra battaglia contro il “terrorismo”. Il rifiuto dei palestinesi dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, per Netanyahu e il gabinetto di sicurezza è solo una manifestazione del “terrore” che va combattuta anche sbattendo in carcere, per anni, i ragazzini di 14 anni che lanciano pietre contro le auto dei coloni israeliani.

 

Come gli altri che lo hanno preceduto, anche questo governo israeliano non comprende che non saranno gli anni di carcere, la repressione, i colpi sparati dai tiratori scelti, la prigione per migliaia di palestinesi, le multe salate, a fermare chi da decenni chiede di essere libero. Due giorni fa, su Maariv, l’analista Ran Edelist ha provato a spiegare a Netanyahu che i suoi tentativi di arginare la violenza a Gerusalemme semplicemente creano altra violenza. «Dobbiamo ancora riprenderci dall’iniziativa del ministro per Gerusalemme, Zeev Elkin, volta a sostituire i libri scolastici palestinesi con libri di testo israeliani (cosa faremo la prossima volta, sostituiremo il Corano con la Bibbia?) che arriva il ministro della pubblica sicurezza Gilad Erdan a minacciare i giudici misericordiosi verso i lanciatori di pietre…il primo ministro ha annunciato che chiunque scaglierà di pietre o bombe incendiarie pagherà un prezzo molto pesante. Isteria, perdita di proporzione e modi di agire che creano le condiziooni per la prossima ondata di spargimento di sangue. Vuoi proteggere i residenti di Gerusalemme? Considera i quartieri palestinesi come luoghi che in cui vivono delle persone e non dei nemici e avvia negoziati autentici con i palestinesi», ha scritto Ran Edelist.

 

Parole cadute nel vuoto. Incurante delle forti perplessità espresse anche dalla Procura generale dello stato, il gabinetto di sicurezza israeliano ha deciso l’imposizione di pene minime detentive di quattro anni per i ragazzi di 14-18 anni che a Gerusalemme lanceranno bottiglie molotov o altri ”ordigni letali”. Gli agenti di polizia faranno riferimento ad altre regole d’ingaggio. Finora, almeno ufficialmente, potevano sparare solo se si trovavano in pericolo immediato di vita. Adesso potranno farlo anche se, a loro giudizio, altre persone rischieranno vita. Il grilletto facile perciò sarà la regola, persino più che in passato. Agli agenti sarà dato in dotazione un fucile con proiettili di piccolo calibro (22), ritenuti non letali e che già sono usati contro le manifestazioni palestinesi in Cisgiordania (lo scorso anno un attivista italiano, Patrick Corsi, fu ferito gravemente da uno di questi proiettili che si fermò tra cuore e polmone). Altre misure allo studio sono le multe ai genitori di ragazzi di 12-14 anni scoperti a lanciare pietre o bottiglie incendiarie e la sospensione di ogni tipo di assistenza sociale ai condannati. Ufficialmente questi provvedimenti saranno impiegati anche nei confronti dei cittadini israeliani ebrei. Lo scetticismo in casa palestinese è forte.

 

D’altronde è davanti agli occhi di tutti il comportamento delle autorità israeliane quando sul banco degli accusati ci sono i coloni che vivono a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Mentre forze di sicurezza, Knesset e governo sono scattati per fermare, con provvedimenti pesanti, i palestinesi che lanciano pietre e bottiglie molotov, appaiono alquanto lenti con coloro che alla fine di luglio nel villaggio di Kafr Douma (Nablus) hanno bruciato vivi tre palestinesi: Ali Dawabsha, 18 mesi, il padre Saad e la madre Riham (in vita resta solo il fratello Ahmad, 4 anni, con ustioni sul 60% del corpo). Sono passati due mesi da quella notte è non si sa nulla dell’andamento delle indagini, nonostante lo stesso esercito israeliano abbia comunicato che i responsabili dell’incendio sono senza alcun dubbio degli estremisti ebrei. Gli ultimi sviluppi risalgono a qualche settimana. Il ministro della difesa Moshe Yaalon ha detto che l’identità degli assassini è nota agli investigatori ma non è stata svelata per impedire che sia scoperto un informatore. Un po’ poco di fronte a tre persone arse vive.