Gli anni più belli recita il titolo del nuovo film di Gabriele Muccino. Bello. Poi c’è anche Claudio Baglioni che ha confezionato l’apposita omonima canzone a suggellare la suggestione. E allora ci si lascia sprofondare nel racconto che Muccino ha scritto con Paolo Costella e che ci trascina nei tardi anni 80, quando durante uno scontro di piazza due adolescenti, Giulio e Paolo, soccorrono un terzo ragazzo, Riccardo, colpito da un proiettile vagante. Strana storia, viene da pensare, ma va bene così, perché Riccardo supera la faccenda e da quel momento diventa «Sopravvissù», amico fraterno degli altri due, cui si aggiunge Gemma per formare un quartetto apparentemente invincibile.

IN REALTÀ, suggerisce Muccino, sono tutti sopravvissuti alla generazione dei nonni che ha visto la guerra, a quella dei genitori che ha visto i giovani cercare di prendere in mano il proprio destino. Loro no, non riescono a diventare protagonisti a livello generazionale, si devono barcamenare con padri gretti, genitori hippy, mamme possessive o affidamenti ai parenti da orfani controvoglia (rispetto all’affidamento, non alla condizione involontaria). Intanto il mondo va avanti, crolla il muro di Berlino e la Guerra Fredda, loro cercano una propria strada.

Improbabile quella di Giulio, divenuto avvocato, pronto a schierarsi inizialmente con gli ultimi, ma altrettanto pronto a divenire difensore di un autentico criminale dal colletto bianco per cambiare condizione sociale. Paolo invece studia e sogna di diventare insegnante di ruolo, ambizione modesta eppure esagerata per il nostro paese, nel frattempo si innamora ricambiato di Gemma. Riccardo, invece, arrotonda come comparsa a Cinecittà, trova moglie e ha un figlio, poi però non riesce più a mettere insieme il pranzo con la cena e viene scaricato, con l’aggravante di vedersi sottratto anche qualsiasi rapporto con il bimbo. Le vicende dei nostri proseguono per decenni senza aggiungere molto. Lo scorrere del tempo è dato dal crollo delle torri gemelle e dall’ultimo dell’anno che apre e chiude il racconto.

A QUEL PUNTO è inevitabile, e dichiarato, l’omaggio citazione di C’eravamo tanto amati di Scola, con il quartetto di protagonisti che le vicende personali portano su strade diverse. Già, ma quel che in Scola era poderoso affresco di una generazione qui suona come bozzettismo, la storia, quella vera, non pulsa e le storie dei nostri sono anemiche e singhiozzanti. Muccino è un regista capace di raccontare le dinamiche famigliari, il quotidiano spicciolo, i tradimenti che nascono dall’emozione del momento, dalle pulsioni incontrollate.

Piaccia o non piaccia questo è il suo registro, corale, fatto di sfaccettature in cui ognuno potrebbe trovare traccia di se stesso. Ma quando si vuole trasformare questa dimensione in epopea, tutto sembra sfarinarsi. Compresi gli attori, tutti personaggi importanti del nostro cinema, da Favino e Kim Rossi Stuart, da Santamaria a Micaela Ramazzotti, compresi i giovani cloni così somiglianti ai loro personaggi adulti. Alla fine, molto telefonata, resta un po’ di disappunto per l’inutile monumento generazionale avvolto in una confezione plastificata, così difficile da smaltire.