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Quasimodo non solo grancassa: riaprire il discorso?

Quasimodo non solo grancassa: riaprire il discorso?Salvatore Quasimodo nel suo studio milanese

Novecento italiano Curzia Ferrari, Cavalleri, Mussapi e Guarracino (edizioni Ares) perorano il poeta vittima di una roboante popolarità, e dei critici

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 4 settembre 2022

L’ombra in cui è entrato il nome di Salvatore Quasimodo è un fatto di cui ogni lettore può rendersi conto, solo che si rifaccia ai suoi ricordi di scuola. Una maestra dei primi anni sessanta, per esempio, accanto ad Angiolo Silvio Novaro e Ada Negri, poteva dettare Alle fronde dei salici. E dei bambini sillabare «l’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo», scoprendo – loro ancora inconsapevoli della storia – che anche l’attesa di una primavera può essere terribile, se terribili sono le parole che la dicono.

Poi, nelle antologie – ma saremmo già agli anni ottanta –, l’incontro non più dimenticato poteva essere Sandro Penna, trasparente e inesplicabile. Quasimodo, premio Nobel nel 1959, aveva già smesso di essere il poeta italiano del Novecento del quale tutti o quasi potevano citare qualche verso a memoria.

Che cosa abbia scontato Quasimodo prima e dopo la morte, quali le riserve della critica (non dei lettori: dentro e fuori la scuola, Quasimodo piaceva) e in che modo l’orecchio alla poesia fosse mutato sul finire degli anni sessanta, è il tema di Per Salvatore Quasimodo Da un’idea di Curzia Ferrari (Edizioni Ares, pp. 232, euro 18,00).

Quasimodo, che, come nessun altro dopo D’Annunzio, aveva limato il suo profilo di poeta fino a cambiare l’accentazione del cognome da Quasimòdo a Quasìmodo (ma alimentò anche la storia dell’origine a partire dall’introito della prima domenica dopo Pasqua: Quasi modo geniti infantes… – un incipit che echeggia in Amen per la domenica In Albis: «Non m’hai tradito, Signore: / d’ogni dolore/ m’hai fatto primo nato») – Quasimodo, oggi si può dirlo, scontò la sua popolarità. Parliamo dunque della perorazione per un grande dimenticato.

Le quattro voci che si alternano nel libro sono: di Cesare Cavalleri, che dopo aver regolato qualche conto letterario con nomi troppo illustri per riprenderli qui, indica da dove partire per una rilettura; di Roberto Mussapi, che coglie consonanze con il lavoro dei contemporanei – da Seamus Heaney e Yves Bonnefoy – e riporta in luce la «poetica traduttiva» di Quasimodo: un aspetto da approfondire, se il programma – esteso dai classici greci e latini a Shakespeare – era di «far diventare poesia italiana, ovvero parola e forma metrica nostra, un testo scritto in tutt’altra condizione temporale-linguistico-culturale»; di Vincenzo Guarracino, il quale ripercorrendo quanto si è scritto sul poeta, avanza, anche sul piano della critica, un’esigenza di «giustizia». Contano come quinto punto di vista l’album fotografico ricco di inediti e i ritratti, eccezionalmente numerosi, che di Quasimodo fecero gli artisti suoi contemporanei.

Ma è il contributo di Curzia Ferrari, la scrittrice che è stata compagna di Quasimodo nell’ultimo tratto di vita, a formare il nucleo e la ragione del volume, perché pone domande sul modo di fare critica, su quei giudizi che da un certo punto in poi si tramandano in copia da un lettore all’altro senza più curiosità per l’uomo che ha vissuto dietro il testo.

Oggi, in chi scrive di letteratura, la dimensione personale di un autore riceve spesso un’attenzione ingiustificata: e un pulviscolo di fatti secondari finisce con l’oscurare testi e lingua – unici reperti in grado di decidere che cosa passa e che cosa resta. Eppure, fintanto che i silenzi e il non detto di un autore perdurano nel ricordo di chi c’era e un lascito non riducibile alle carte contraddice il giudizio critico su di lui, che cosa bisogna fare?

Curzia Ferrari ha risposto con un racconto che procede per annotazioni personali e immagini (bellissimi gli scatti estranei all’ufficialità: Quasimodo in paltò che attraversa la strada a Milano oppure sullo sfondo dell’allora sorgente «quartiere direzionale» delle Varesine): una tecnica di collage, si può dire, oppure un montaggio che fa emergere i volti dell’uomo e prova a sondare una sensibilità così celata, che si è potuto fraintenderla o anche stravolgerla.

Che cosa sia stato il «non detto» di Salvatore Quasimodo – personaggio pubblico fin troppo generoso nel concedersi alle sollecitazioni della celebrità – Curzia Ferrari non lo svela. Forse perché non si tratta solo di riferire fatti e parole, ma quello che traspariva da Quasimodo vivo, standogli accanto nella stessa casa e nei ritrovi di una Milano scomparsa.

Di certo, per spiegare, bisognerebbe addentrarsi in terreni difficili come il senso del divino e il dialogo dei vivi con i morti – pensieri che sembrano aleggiare alle spalle del poeta mentre va incontro al re di Danimarca o siede, solo, nello studio di corso Garibaldi.

Ma per provare a definire quella che rimane un’intuizione preziosa, indispensabile a chi voglia riaprire il caso Quasimodo, si può raccontare la storia così.

C’è un poeta – che crede profondamente nella missione assegnata alla poesia nei confronti del genere umano – il quale, uscendo da una stagione lirica rarefatta e da una guerra sterminatrice di ogni valore, si apre alla vita civile e prende su di sé il compito di parlare per gli uomini, tutti gli uomini del suo tempo. Quanto vi sia di D’Annunzio in questa postura (l’erma dannunziana dominava ancora, alta, sull’orizzonte poetico di Quasimodo, se un ricordo del 1963 – che ha sentore di stanze chiuse da tempo – ci mostra Curzia e Salvatore presenziare insieme alla riesumazione del corpo di Gabriele), sarà materia per altri studi. Quel che risulta provato è che la «lobby dei critici» – come la chiama Curzia Ferrari – non gradì. E sentì nei versi, specie in quelli che seguono la guerra, un rimbombare impoetico di grancassa.

Intanto al pubblico, e diciamo pure «al popolo», quei versi piacevano. In giro per l’Italia città e paesi, da Marzabotto a Valenza, chiedevano al poeta testi da incidere nelle epigrafi di una nuova epica nazionale – che il «Meridiano» curato da Gilberto Finzi opportunamente ha registrato. Ma Quasimodo, pur tra i molti onori che gli venivano resi, rimaneva un isolato. L’aver tentato da solo una via, contando su poche alleanze in ambito letterario (i suoi amici erano soprattutto artisti), non gli assicurò il favore di un ripensamento critico capace di riconoscere, al di là dei momenti in cui la sua voce era risuonata effettivamente meno autentica, il pathos antico che la attraversava come un fiume sotterraneo. L’ansia di verità, quella che lo spinge a portare in poesia la cronaca: che sia piazzale Loreto (Laude – 29 aprile 1945: «FIGLIO: – E perché, madre, sputi su un cadavere / a testa in giù, legato per i piedi / alla trave? … MADRE: – Sempre abbiamo sputato sui cadaveri, / figlio … il nostro cuore ha voluto aperto / l’altro cuore che aveva aperto il tuo») o il clima da pace armata post ’45 (Anno Domini MCMXLVII: «E ora / che avete nascosto i cannoni fra le magnolie, / lasciateci un giorno senz’armi sopra l’erba») non trova difensori disposti a farla valere.

Conclusione. La «congiura» (ancora Ferrari) si consolida. Il poeta italiano più tradotto nel mondo porta a Milano, capitale di industria e di cultura, il premio Nobel. E presto, appena dopo la morte nel ’68, è dimenticato. A partire da questa storia, dalle fotografie che sono già un film, la città attenta custode del lascito dei suoi designer potrebbe riaprire il discorso su Salvatore Quasimodo. Quanto alla critica che non cura il rumore dei giorni, è bello ricordare la scheda con cui Gianfranco Contini accoglieva Quasimodo nel canone nella sua Letteratura dell’Italia unita. Vi sono già riassunti, con la consueta esattezza e economia di termini, «la materia verbale, incorruttibile, lapidea, lucidissima» e l’uso dei sostantivi privi di articolo («soave amico mi desta») – «spia grammaticale infallibile» di un desiderio di eterno comune tanto al traduttore dal greco quanto al poeta.

Nella scelta delle liriche, impossibile non notare la presenza di Al padre: «Dove sull’acque viola / era Messina, tra fili spezzati / e macerie tu vai lungo i binari / e scambi col tuo berretto di gallo/ isolano…». Qui Contini, il cui padre amatissimo era stato capostazione come quello di Quasimodo, lascia cadere, pudicamente, l’unica nota: «il berretto rosso indica gli addetti al movimento». Il critico che ha insegnato a radicare ogni giudizio nel testo e nell’indagine della lingua aveva un cuore.

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