«Ha cambiato la nostra vita», ha dichiarato il primo violino del quartetto Ébène, che festeggia quest’anno i suoi vent’anni di attività, a proposito della interpretazione di tutti e 16 i quartetti di Beethoven in giro per il mondo. Compresa la Grande Fuga, primo finale del quartetto op. 130. Pierre Colombet, Gabriel La Magadure, Marie Chilemme e Raphaël Merlin hanno realizzato il loro Beethoven around the World in sette tappe incise in altrettanti cd, pubblicati per Erato (e 49,99): 1.Philadelphia, Usa: op. 18 n. 1 e op. 131. 2. Vienna, Austria, op. 59 nn. 1 e 2, «Razumovskij» («dem Grafen Rasoumoffsky gewindmet» nell’edizione Breitkopf). 3. Tokyo, Giappone: op. 59 n. 3 e op. 130, Grosse Fuge op. 133. 4. Sâo Paulo, Brasile: op.18 n. 6 e op. 127. 5. Melbourne, Australia: op.18 n. 2, op. 95, op. 74 «Arpe». 6. Nairobi, Kenya: op. 18 nn. 4 e 5, op.135. Parigi, Francia: op. 18 n. 3, op. 132. Una bella illustrazione geografica dell’abbraccio al mondo che la musica di Beethoven propone: «Abbracciatevi moltitudini!» aveva scritto Schiller. Il primo e l’ultimo concerto accostano un quartetto dell’op. 18 e uno degli ultimi, l’ultimo quartetto a Nairobi, il penultimo a Parigi. C’è un’idea interpretativa in questo accostamento.

Ascoltati di seguito i primi e gli ultimi quartetti fanno risaltare sì le differenze, tra il solido equilibrio classico dei primi sei splendidi quartetti dell’op. 18 e la libertà sperimentale degli ultimi, ma suggeriscono anche la continuità di un pensiero musicale che, in fondo, è sperimentale fin dall’inizio. L’audacia è solo maggiore o minore. Forse, di più, si tratta di una sempre più articolata consapevolezza del proprio sperimentalismo. Credo bene che eseguirli abbia cambiato la vita dei suonatori. I quartetti percorrono tutto l’arco inventivo della visionaria, e coerente, riflessione musicale di Beethoven. Come le sonate e, in parte, i trii (compresi quelli, straordinari, per soli archi, di una sorprendente novità strutturale, anche rispetto alle pur sconcertanti novità delle prime sonate).

La costruzione di un’opera è per Beethoven un percorso accidentato: la successione dei movimenti può cambiare senso a tutta l’opera. Per esempio, l’op. 130 prevedeva come finale la Grande Fuga. Gli amici e l’editore convinsero Beethoven a scrivere un finale alternativo. Così compose un allegro brioso, umoristico, che a ritroso cambia il senso del quartetto. La fuga ne esaspera lo sperimentalismo. L’allegro rimette le carte a posto, ricompone l’ordine del mondo. Il quartetto Ébène esegue solo la Grande Fuga. Non registra l’allegro. Dichiara anzi che la fuga è il «finale originario». Non è vero, non è il finale originario, ma il primo, sostituito poi dall’allegro, e la fuga fu pubblicata a parte. Questa idea della versione originaria, inesistente, è un’ossessione oggi assai diffusa e tuttavia discutibile.

Per il resto, invece, l’impaginazione mette in risalto proprio la costante attenzione che Beethoven dedica alla coerenza della costruzione musicale. Il primo cd, per esempio, mette insieme il primo quartetto e l’op. 131, il terzultimo. Il più complesso di tutti, sette parti più che sette tempi, che si succedono senza soluzione di continuità: ogni parte si rivela così tappa di un unico percorso, come se la fuga iniziale e le altre parti fino al focoso finale costituissero un unico tempo. Un’unica cellula, poi, è il materiale subtematico del quartetto. Anzi lo è di tutti e cinque gli ultimi quartetti: ed è tratta dal nome Bach. Il semitono si rivela in realtà come intervallo privilegiato di tutti e 16 i quartetti, e di tutta la musica di Beethoven. Un viaggio, quello dei quartetti, che dall’op. 18 all’op. 135 conduce a noi, e chi sa anche fino a quando, dopo di noi. Il merito del quartetto Ébène sta nel riportare la complessità della costruzione a un andamento sempre discorsivo delle parti, a un’attenzione continua del contrappunto, oltre che dell’inusitato e sorprendente gioco dinamico, così tipico di Beethoven. L’ascolto è un’esperienza indimenticabile.