[object Object]

Il 24 maggio 1928 il dirigibile Italia, diretto al Polo Nord alla guida di Umberto Nobile, si schiantò al suolo a poche miglia dalla costa nordorientale delle isole Svalbard. Il 18 giugno, durante il volo di trasferimento da Tromso (nell’estremo nord della Norvegia) alla zona dell’incidente, scomparve anche l’idrovolante francese Latham con a bordo Roald Amundsen, eroe polare ormai in declino, lasciato fuori da tutte le operazioni di salvataggio ufficiali e per questo imbarcatosi in un progetto privato francese per contribuire alle ricerche del collega e rivale Nobile.
È da questi tragici eventi che trae spunto L’ultimo viaggio di Amundsen di Monica Kristensen (traduzione di Sara Culeddu, Iperborea, pp. 512, e 19,50) già autrice sempre per Iperborea di due gialli ambientati nei suggestivi panorami delle Svalbard, La leggenda del sesto uomo e Operazione Fithamn.

Unendo la ricchezza e la cura dei dettagli del documentario al ritmo spumeggiante del romanzo di avventure, Kristensen racconta in parallelo le tribolazioni dei sopravvissuti costretti per ben quarantotto giorni su una lastra di ghiaccio in progressivo sgretolamento e l’epopea dei soccorsi messi in atto da sei paesi diversi (Italia, Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia, oltre alla spedizione privata franco-norvegese guidata da Amundsen) con un totale di ventun aerei e diciassette navi, fino al salvataggio in più tempi – prima ad opera di un aereo svedese, poi di una nave rompighiaccio russa – del gruppo principale dei sopravvissuti: oltre a Nobile, i cinque rimasti con lui nell’accampamento improvvisato e due dei tre partiti a piedi in cerca di soccorsi.

Dei sei rimasti imprigionati nel pallone andato alla deriva senza controllo e dei sei membri della missione franco-norvegese guidata da Amundsen invece non si sarebbero mai più avute notizie. A emergere dal libro è un ritratto del mondo affascinante delle spedizioni polari, che all’epoca suscitavano l’entusiasmo e l’acclamazione delle folle grazie a figure leggendarie come Fritiof Nansen e lo stesso Amundsen – un fascino basato sulla drammatica bellezza e gli sconfinati silenzi delle desolate distese di ghiaccio, sull’aura di tragica sconfitta che già ammantava i dirigibili, destinati di lì a poco a essere soppiantati dai più moderni e duttili aeroplani, oltre che sui pericoli testimoniati dall’impressionante elenco di caduti: «Non si diventava eroi del volo senza un corpo a corpo con la morte», come riassume Kristensen.
Nel 1928, l’epoca d’oro del culto degli eroi e delle spedizioni epiche era ormai agli sgoccioli, un’epoca la cui fine sembra coincidere con il destino del suo ultimo campione, Amundsen, ricordato così dal suo mentore Nansen: «E alla fine del viaggio è tornato alle terre di ghiaccio, dove lo aspettavano le avventure della sua vita. Lì ha trovato una tomba ignota, sotto il cielo terso del mondo glaciale e nel fruscio d’ali dell’eternità che attraversa l’aria».