Cile, 11 settembre 1973. Sergio Vuskovic Rojo, sindaco comunista di Valparaiso, viene condotto nella nave scuola della Marina militare cilena alle due del pomeriggio. Da poche ore, il generale Pinochet ha preso il potere con un colpo di stato. Il presidente socialista Salvador Allende ha preferito uccidersi piuttosto che arrendersi. Per nove giorni, Vuskovic non sarà che un corpo in catene nelle mani dei torturatori. Cosa succede alla mente sotto tortura? Vuskovic, da noi intervistato nel 2007, lo racconta in poche pagine di intensa riflessione dal titolo Un viaggio molto particolare, pubblicato nei Quaderni di via Montereale (N. 19-2007).

Sergio Vuskovic Rojo
Sergio Vuskovic Rojo

Cosa ricorda del periodo precedente il colpo di stato militare?

La grande partecipazione popolare alla vita pubblica, l’enorme consenso, le nazionalizzazioni. Ricordo il presidente Allende, un uomo di grande spessore politico e umano. Lo avevo conosciuto nel ’52 insieme a Neruda, che era appena tornato dall’esilio. Ricordo il mio ultimo incontro con il poeta. Come sindaco di Valparaiso, ero andato a portargli una medaglia d’oro a nome del comune. Era malato, ma continuava a fare progetti. Mi ha detto: guarda, l’anno prossimo avrò 70 anni, sto scrivendo 7 libri, uno per ogni decade. Dopo, quando è morta la moglie Matilde, li ha pubblicati, era riuscito a finirli prima di morire. Il 26 giugno del 2008, i cento anni dalla nascita, torneremo a chiederci come abbia potuto Pinochet, un essere che sapeva solo latrare, guidare una rivoluzione conservatrice di quelle proporzioni.

Cosa accadde nelle ore del golpe?

All’epoca ero un dirigente operaio del Partito comunista cileno, membro del comitato regionale di Valparaiso, di cui ero sindaco. Per questo motivo, mi hanno arrestato subito dopo il golpe, faceva parte del piano generale. Sembrava fosse scoppiata la Terza guerra mondiale, arrestavano chiunque senza motivo. Mi hanno portato alla nave scuola della Marina militare cilena e torturato per tre giorni. Ero legato a un palo, in mutande, le mani dietro la schiena. Mi applicavano scariche di corrente elettrica su tutto il corpo, soprattutto sui testicoli, il petto e la schiena. Poi, arrivava la gragnuola di colpi, calci e pugni, che mi lasciava lividi violacei dappertutto. Gli ufficiali facevano a turno, non so chi fossero, né quanti, perché avevamo tutti la testa coperta da un cappuccio. Alcuni torturavano ferocemente, altri meno. Quando entravano nei camerotti per colpirci, alcuni lo facevano con violenza, altri mettevano il piede in modo da farti meno male. Sono stato lì fino al 19 settembre. Poi, insieme ad altri compagni, sono stato trasferito sull’isola di Dawson, a sud del Canale di Magellano.

Come vi trattavano sull’isola?

Era un campo di concentramento per soli uomini, l’isola apparteneva alla Marina militare. Eravamo ai lavori forzati. Ogni 15 giorni cambiava la guardia, la peggiore era quella dell’esercito, la forza armata il cui comandante in capo era Pinochet, quando era di turno la Marina o la forza aerea o i carabinieri era meno peggio. Cercavamo di riunirci e parlare, lontano dai soldati. Pioveva sempre, oppure grandinava o nevicava. Eravamo 42, due o tre sono morti per il freddo, i postumi delle torture e la cattiva alimentazione. Se non ci avessero trasferito in un campo di concentramento al centro del paese, saremmo morti tutti. Dopo, sono rimasto 8 mesi in un campo e altri sei in un altro prima di andare in prigione a Valparaiso. Ho fatto tre anni.

Già in quei primi mesi del golpe, molti prigionieri venivano uccisi o fatti scomparire nelle prigioni segrete. Lei come ha fatto a salvarsi?

Giocarono, credo, alcuni fattori d’ordine generale e personale. Intanto, il nostro era stato un governo giusto, che non aveva avuto prigionieri politici, aveva rispettato i diritti dell’opposizione, compreso il ruolo della chiesa cattolica. Anche nelle forze armate, certi ammiragli erano d’accordo con le nazionalizzazioni del rame, perché pensavano che se lo stato cileno avesse avuto più soldi, ne sarebbero andati di più alla difesa. E non tutti i militari erano fascisti, solo che, da noi, le forze armate seguono gli alti comandi in modo prussiano. Quanto a me, non avevo mai rimosso un funzionario dell’opposizione, ed ero amico del comandante in capo della Marina militare. So che aveva chiesto di non torturarmi. Non gli hanno dato retta, e hanno torturato anche mio figlio di 17 anni, che era studente ed è rimasto 9 mesi in carcere. A mia moglie e a mia figlia, però, non hanno fatto del male. A casa ho ancora tutte le mie opere marxiste: questo almirante Merin ne aveva fatto una questione fra uomini, di riconoscimento del coraggio e così non mi aveva distrutto la casa. Intanto, l’università di Bologna mi aveva inviato al campo di concentramento un contratto di lavoro che avevo firmato, e il regime mi ha lasciato uscire dal paese. L’importante, per loro, era che non andassimo a chiedere rifugio in un’ambasciata, che non ci fosse troppo rumore sul piano internazionale.

Il suo libro racconta le astuzie della mente per resistere alla tortura, la lotta psichica fra il comunista prigioniero e quello che lei chiama l’Uccello torturatore. Un’esperienza quasi mistica.

Quando due torturati si incontrano non si parlano, si abbracciano, e così si dicono tutto. Io, però, ho voluto che anche altri potessero capire. Dopo aver vissuto un’esperienza-limite, percepisci in modo diverso la realtà. Ti senti portatore di un’intima presenza, estranea al mondo quotidiano com’era per te prima. All’esiliato che sia passato attraverso la tortura, nei primi tempi di libertà, capita di rifiutare tutto ciò che è straniero. In quel modo distorto, rifiuta l’”altro” che lo ha torturato, l’altro-carnefice. Ma poi, si è preda di un sentimento ambivalente: da una parte si prova estraneità verso chi non ha vissuto quell’esperienza, dall’altra si avverte il bisogno di comunicarla. E però ci si accorge che mancano le parole: soprattutto quando la lingua del dolore è ormai solo un’invocazione, un modo di testimoniare un’esperienza, senza odio o vendetta. Quei codici della cultura comune, che appiattisce tutto, che rende incomunicabile l’esperienza del poeta, la vera percezione dell’altro, non sono adatti a trasmetterla.

Forse perché la tortura, come la morte, è un viaggio nel dolore dai tratti unici che nessuna tecnica di resistenza può anticipare fino in fondo.

Il linguaggio ha difficoltà a far capire la tortura perché chi la subisce è di fronte a un mistero, al terrore psicologico nell’immaginare la scarica elettrica – soprattutto i colpi ai genitali – verso cui l’esperienza del dolore precedente non fornisce abbastanza difese. Il corpo anticipa quel terrore durante le sessioni di interrogatorio in cui un carnefice minaccia, e magari un altro fa la parte del “buono”. Teso fino al parossismo, il corpo immagina l’arrivo del colpo. L’Io più nascosto sente che la malvagità di quello che ti interroga “con le buone” è in agguato. “Dov’è nascosto tuo figlio?” mi chiedevano. “E come faccio a saperlo se sono sempre stato qui?” rispondevo. “Ti rinfresco io la memoria” diceva l’Uccello Torturatore. Allora io cercavo di ricordare dei versi in lingua basca che avevo letto tanto tempo prima. In quale romanzo si trovavano? Forse in un’opera di Baroja. Com’era la traduzione? Per cercarla, dovevo assolutamente ricordare tutto il romanzo dal principio. Poi, arrivavano altre scariche. “Dove sono le armi?” mi chiedevano. “Ve lo dirò”, rispondevo. “Ecco, così va bene”. “Si trovano in caserma”, dicevo. “Ci prendi per i fondelli”, urlavano, e giù altre scariche. E allora facevo finta di gridare di più quando la corrente mi colpiva sulla schiena, dove invece sopportavo meglio, e a volte ci cascavano, ma non sempre. Quello che vale sempre, è però la determinazione iniziale: la libera scelta di non consegnarsi al carnefice e di andare fino in fondo. Per me, questo ha voluto dire viaggiare fino al limite della spoliazione dell’Io, verso il vuoto mentale assoluto: il pensiero svanisce, l’Io si paralizza e il suo ultimo attimo cosciente è quello in cui constata la perdita della sua identità ontologica. Dopo aver accolto il dolore, gli opposti si uniscono, diversi ma coesistenti, in una sintesi perenne che si riproduce. L’unità essenziale è completa: mentre una delle due parti soffre, l’altra prova piacere; mentre una cammina, l’altra rimane immobile; mentre una parte scende nella tomba, l’altra rinasce a nuova vita. Se la morte è solo una parte di questo corpo generale, non è così terribile. Se la tua carne è parte della carne del mondo che vive e si trasforma, ti chiedi: esiste forse anche una mente universale, in cui la tua coscienza non è che una piccola goccia nel mare? E allora, ecco che non hai più paura. Provi pietà persino per l’Uccello Torturatore, che ti costringe a un breve viaggio di ritorno per riadeguare il tuo sistema di difesa. Ora ti appare per quello che è: lo strumento di un sistema sociale dominante che per esistere deve ridurre le persone al grado zero dell’umano. Ma un sistema così è storicamente condannato.