Quarant’anni. Un tempo sufficiente a veder passare due generazioni. Nelle scuole, nei partiti, nei sindacati, in città. E ancora per la magistratura non c’è un colpevole per la strage del 28 maggio 1974. Quella bomba nascosta in un cestino, esplosa in Piazza della Loggia mentre era in corso una manifestazione antifascista, fece otto morti e più di cento feriti. E fu forse l’attentato più gravido di implicazioni della stagione delle stragi: colpì al cuore il movimento dei lavoratori, nella città con il fermento sindacale più temibile in Italia, sul crinale degli anni ’70.

Le Poste Italiane hanno deciso di dedicare un francobollo al quarantesimo anniversario della strage di Piazza Loggia, mentre nelle aule giudiziarie ricomincia – come disposto lo scorso 21 febbraio dalla Cassazione – il processo a carico di due degli imputati assolti in primo e secondo grado: il capo dell’organizzazione neofascista veneta Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi, e il collaboratore del Sid, l’allora servizio segreto militare, Maurizio Tramonte.

Nei loro confronti, ha stabilito la suprema corte, si è verificato «un ipergarantismo distorsivo della logica e del senso comune» che ha portato a conclusioni «illogiche e apodittiche» da parte dei giudici della corte d’Assise d’Appello di Brescia, che il 14 aprile 2012 aveva assolto tutti gli imputati. Tramonte (la «fonte Tritone» del Sid), considerato informatore ed infiltrato dei servizi negli ambienti della destra eversiva, era un personaggio troppo interno ai neofascisti veneti e «non raccontava al maresciallo Felli – scrivono i giudici di Cassazione – tutto cio’ che sapeva o aveva fatto». Mentre nei confronti di Maggi, medico veneziano e capo indiscusso di Ordine Nuovo, sarebbero stati sviliti numerosi indizi, come il sostegno allo stragismo eversivo di destra e il fatto che «l’ordigno esplosivo sia stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e Digilio», neofascista esperto di esplosivi – quest’ultimo – legato ai servizi statunitensi, morto nel 2005.

Ma ormai le prove che dovevano sparire sono sparite (la piazza fu «lavata» immediatamente dopo l’attentato) e le informative che non dovevano arrivare non sono arrivate. Come quella inviata dai servizi segreti dal centro di Padova a Roma, indirizzate all’allora capo del Sid, Gianadelio Maletti, e riguardante la riunione in cui si sarebbe deciso l’attentato: «Maletti su una di queste informative scriverà: “Notizia importante, passare alla magistratura” – ricorda Manlio Milani, presidente dell’associazione famigliari delle vittime della strage di Piazza Loggia – Ma alla magistratura non arriveranno mai». Omissioni e depistaggi che hanno accompagnato tutta la storia delle indagini sulla strage del ’74: «Quando Maletti nell’agosto del 74 viene interrogato dalla magistratura, dirà che in quel momento – prosegue Milani – i servizi segreti non sapevano assolutamente nulla. Tiene nascosto l’appunto. Nel 2010 abbiamo sentito l’ex generale in videoconferenza (Maletti è tuttora in Sudafrica) la risposta è stata che non si ricordava più di quell’aspetto». Al di là delle trame e dei contatti assodati tra i servizi e gli estremisti di destra «l’ultima sentenza – spiega ancora Milani – ha fissato alcuni elementi importanti: è assodato che tra il ’69 e il ’74 ha operato un unico gruppo neofascista facente capo a Ordine Nuovo. E che colui che ha costruito l’ordigno portato in Piazza Loggia, Carlo Digilio, era già stato condannato per la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Questo certifica la continuità di quel progetto».

Accanto all’infinita vicenda giudiziaria, da tempo ormai la memoria della strage di Brescia percorre binari propri. Una memoria che ha elaborato – fin da subito – la consapevolezza di dover separare la verità storica dalle indagini della magistratura. Il 28 maggio ’74 a Brescia morirono otto persone. Tra di loro c’era un gruppo di insegnanti, che si era riunito intorno alla colonna dove scoppiò la bomba, che in quegli anni avevano contribuito a fondare le sezioni sindacali della scuola: Giulietta Banzi, Livia Bottardi, Alberto Trebeschi, Clementina Calzari e Luigi Pinto insegnavano nei licei e nelle scuole medie della città. Insieme a loro morirono due lavoratori, Vittorio Zambarda e Bartolomeo Talenti, ed Euplo Natali, operaio in pensione. E se l’anniversario del 28 maggio è rimasto vivo fino ad oggi, forse, lo si deve anche alle scuole. Da quarant’anni, i colleghi degli insegnanti caduti il 28 maggio e gli studenti di allora – diventati a loro volta docenti – tengono viva la memoria della strage insieme ai famigliari delle vittime. «La città ancora una volta sente la voglia e la necessità di ritrovarsi, lo dimostra la miriade di iniziative che ci saranno oggi» spiega ancora Manlio Milani. A ricordare la strage di Brescia oggi alle 11,30 saranno presenti in città, insieme alle autorità locali, anche il sindaco di Milano Giuliano Pisapia e il sindaco di Bologna Virginio Merola, due città a loro volta duramente colpite dalle stragi. Nel pomeriggio, come ogni anno, la piazza si colorerà di iniziative promosse dal comitato «Piazza di Maggio», con un intervento del fondatore di Libera, Don Ciotti. Nel salone Vanvitelliano, la sala di rappresentanza del Comune, è stata allestita la mostra «Sguardi sospesi» di Albano Morandi e Ken Damy, con i volti dei manifestanti negli istanti successivi alla strage, fotografati allora proprio da Ken Damy e dal collettivo fotografico La Comune.