«Non sono mai stato iscritto al Movimento 5 Stelle, sono un indipendente» dice Giuseppe Conte alla stampa in una giornata in cui cerca di cucire tra i due alleati di governo e al tempo stesso di ritagliarsi un’identità di arbitro imparziale. Se non è una mossa disperata, poco ci manca. Però Conte sa bene che la grande maggioranza dei 5 Stelle non vuole tornare alle urne e quindi è disposta a fare finta di nulla di fronte alla sua presa di distanza abbastanza plateale dal soggetto politico che lo aveva prima nominato ministro in pectore e poi, nelle giornate convulse di un anno fa che portarono al contratto gialloverde, promosso sul campo presidente del consiglio.

I 5 Stelle sono sotto botta, soffrono la lista delle pretese di Salvini e sanno che dovranno mediare. Il punto è decidere dove posizionare l’asticella e in che modo fotografare i rapporti di forza usciti dalle urne. Così, se in privato danno il via libera agli sfoghi contro gli alleati ingrati e le loro pretese, le uscite pubbliche sfidano il senso politico comune. Cerca di fare una sintesi la senatrice grillina Paola Bottici, quando fa slalom tra le agenzie stampa e prova di delineare un metodo di lavoro per preservare la maggioranza: «Invitiamo la Lega a non fare annunci, a mostrare le carte che ha in mano, a meno che non stia bluffando – dice Bottici – Mettano sul tavolo le loro proposte su flat tax e autonomie, per poi discuterle insieme sulla base del contratto di governo».

Ma è stato lo stesso Conte ad ammettere che il governo e quel contratto che lo ha fatto nascere oggi si muovono su coordinate differenti, perché le urne hanno ridistribuito le truppe e ridisegnato il campo di battaglia. Quando il ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli, che siede su una delle poltrone dell’esecutivo che ballano di più, esprime «lealtà» a Conte e dice «fiducioso» per di più precisando di parlare a nome di tutto il M5S, si capisce che Di Maio e i suoi hanno accettato il nuovo scenario e intendono fare di tutto per ricucire con la Lega e provare ad andare avanti in qualche modo.

Anche se il senatore Gianluigi Paragone fornisce un’altra lettura delle parole del premier, considerandole più un ultimatum che un invito alla concordia: «Se bisogna vivacchiare è inutile andare avanti», è la sintesi di Paragone. I vertici però vogliono «andare avanti» a tutti i costi, anche se non hanno un’idea precisa del punto di caduta, non sanno dove posizionare l’asticella che tra giochi di poltrone e iniziative del governo possa rappresentare un compromesso accettabile.

È per questo che Di Maio ha espresso tutto il suo disappunto per le parole del presidente della camera Roberto Fico in occasione della parata del 2 giugno:

«Questo ha deciso di sfasciare tutto», ha commentato con chi sti stava accanto. Con più diplomazia, Manlio Di Stefano cerca di prendere le distanze e rimettere la trattativa sui binari giusti: «Alcune volte Fico parla da personaggio istituzionale ma dimentica che le sue parole vengono lette come espressione del Movimento 5 Stelle». Una sentenza sibillina che tradisce un certo fastidio per l’uscita di Fico.

Contro Di Maio e i suoi remano le condizioni politiche oggettive, il fatto che di fronte all’arrembante Salvini è difficile immaginare un compromesso onorevole che ricostruisca la maggioranza su nuove basi. A favore, però, una certezza: la stragrande maggioranza dei 300 e più eletti grillini non vuole sentire parlare di nuove elezioni. Per questo, fino a quando non si daranno concrete possibilità di una maggioranza alternativa, nessuno spingerà per staccare la spina a Giuseppe Conte, l’«indipendente» a capo del governo gialloverde.