L’onda d’urto delle firme referendarie online ha fatto entrare l’Italia nell’era del Web3 politico. I quesiti su eutanasia e cannabis hanno dimostrato che senza irragionevoli ostacoli tecno-burocratici la disintermediazione e la decentralizzazione sono applicabili anche al godimento dei diritti civili e politici. Un esempio di organizzazione politica autonoma decentralizzata che, colta la popolare necessità di riforme radicali, ha mobilitato enormi sostegni in tempi impensabili – e impensati nei vari festival della democrazia o tecnologia che imperversano nelle nostre estati.

Da qualche anno con Web3 ci si riferisce a una nuova iterazione del World Wide Web che, grazie alla tecnologia blockchain, decentra tutto. Nel Web1 (1991 – 2004), la maggior parte dei siti erano statici e la stragrande maggioranza degli utenti consumava senza produrre contenuti. Nel Web2 (2004 – 2021) dati e contenuti sono centralizzati nelle grosse aziende e il web diventa una piattaforma che si concentra su contenuti e dati, creati e caricati dagli utenti nei vari social network, blog, wiki ecc. La recente affermazione e consolidamento delle criptovalute e l’arrivo dei non fungible tokens fanno ritenere il 2021 l’anno del passaggio dal Web2 al 3.

Era il 2005 quando l’Onu convocava a Tunisi (presidente Ben ali!) la prima sessione del Summit Mondiale per la società dell’informazione (WSIS). Organizzare una riunione del genere in un regime dove, tra le tante violazioni dei diritti umani, si bloccava l’accesso ai siti delle associazioni per i diritti umani fece sì che in molti non andarono a condividere proposte che suonavano bene, come «la costituzione per internet» proposta in Italia da Stefano Rodotà, ma che nel concreto scansavano radicalmente il problema. Che senso aveva parlare di regole della rete senza pretendere la protezione e promozione dei diritti umani?

L’umanità ha la sua «costituzione»: gli strumenti internazionali per i diritti umani. Anche se non prevedono la tripartizione classica dei poteri né delineano i pesi e contrappesi perché si possa controllare chi governa, non esiste al mondo uno Stato che garantisca il rispetto dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali previsti dai Patti internazionali che non sia, o s’avvicini a una «democrazia liberale».

Tra i diritti umani ce n’è uno, quello alla scienza, che obbliga gli Stati a garantire il godimento «del progresso scientifico e le sue applicazioni». Per far ciò occorre adottare la tecnologia necessaria per consentire la partecipazione popolare diretta o indiretta al governo di una determinata giurisdizione. Certo garantire l’accesso alla rete aiuterebbe tale adeguamento, ma anche qui non occorrono leggi speciali per investire nelle infrastrutture appropriate, bisogna «giusto» tener presente che quel che viene sostenuto con danari pubblici, anche se fornito da privati, non può creare posizioni «proprietarie» dominanti e deve garantire parità di accesso a costi equi e massima trasparenza dei codici utilizzati per gestire i dati personali nel rispetto della privacy.

Se la totale interoperabilità, cioè procedure unificanti per l’interscambio e interazione informatica, delle telecomunicazioni, dei trasporti e dei sistemi di sicurezza della viabilità sarebbe la chiave di volta dell’efficienza per il cosiddetto e-government totale ma non totalizzante e totalitario (consentendo tra l’altro enormi risparmi per la pubblica amministrazione), la disintermediazione e la decentralizzazione possono consentire l’arrivo della e-democracy.

Come accaduto al «forum delle democrazie» convocato da Biden a dicembre, non ha alcun senso politico predicare l’alleanza della democrazia, o invocare la tecnologia per lo sviluppo sostenibile, se non si rispettano i diritti umani. L’estate referendaria italiana dimostra che basta poco per rendere possibile questa rivoluzione epocale, sarà per questo che un emendamento di Riccardo Magi per la presentazione via Spid delle liste elettorali non è stato adottato?