Era da poco trascorsa la mezzanotte quando Kim comunicò ai suoi amici «social» di essere carico e pronto per seguire le vicende di Portogallo-Francia, finale dell’Europeo 2016.
Sdraiato sul letto nella piccola stanza dalle pareti ammuffite, in una casa qualunque di una cittadina qualunque del Nepal semi-urbano, Kim aveva la faccia illuminata dal tubo catodico della televisione.

Quest’ultima era appena arrivata dal Qatar, dove il padre lavorava come manovale. Dal Golfo Arabo gli era stato spedito anche uno smart phone ultimo modello, il cui schermo lui ora carezzava, picchiettava, lisciava con maestria nelle sue peregrinazioni cibernetiche.
Kim indossava la maglietta originale di Cristiano Ronaldo, stella portoghese, ed era felice che la propria famiglia si fosse permessa il lusso di una sottoscrizione al pacchetto sportivo di DisHome, broadcaster indiano con diritti di trasmissione. Tutto era al suo posto: non restava altro che guardare e far sapere agli altri di star guardando.

Per Kim, il calcio era un’ossessione. Aveva iniziato a giocarci a scuola, assieme ai suoi compagni, nel cortile dell’istituto privato in cui era stato iscritto per studiare l’inglese. Passato l’esame di maturità con discreti voti, Kim iniziò a girovagare per tornei locali. Si partiva con gli amici, a piedi oppure stretti in due dozzine tra i sedili di consunti fuoristrada, e si andava nei villaggi.

Si restava fuori per giorni interi, a volte persino settimane. Si giocava, si beveva liquore d’orzo, e si andavano a conoscere le ragazze. Si stringevano rapporti con uomini più grandi, e ci si sentiva rispettati e quasi adulti. A Kim piaceva tutto ciò: in quei campi ricavati da pascoli d’alta quota o da appezzamenti d’orzo in disuso, egli diventava per qualche ora uno degli attori in quel grande palcoscenico che soleva guardare in televisione.

Dopo tutto, anch’egli vestiva le stesse magliette, gli stessi scarponcini, calciava gli stessi palloni ed esultava alla stessa maniera dei suoi idoli europei. Mancavano, tuttavia, i perfetti campi da gioco, le luci, le migliaia di spettatori: ma si trattava semplicemente di una differenza di scala, non di essenza. Kim era consapevole che il calcio fosse lo scritto di mappe diverse, sempre più grandi fino a contenere tutto il globo.

La palla a scacchi, in quelle terre, aveva iniziato a rimbalzare grazie ad una di quelle circostanze fortuite che fanno del mondo un posto strano.
Mai soggette ad un diretto dominio coloniale, le alte valli nepalesi avevano tuttavia dato, per decenni, i natali a dita tozze e corpi resistenti, pronti ad impugnare fucili per proteggere interessi altrui.

Gli inglesi videro nei loro abitanti degli ottimi soldati. Quest’ultimi, di rimando, scorsero nella militanza la filigrana del danaro. Per anni ed anni, i famigerati Gurkha fecero ritorno da missioni d’oltremare con portafogli semi-pieni e storie da raccontare. Assieme a medaglie, fotografie ed orologi, il calcio andò a costituire un souvenir di modernità.

Poi le cose cambiarono e molti soldati Gurkha si trovarono a rappresentare reliquie d’impero sempre più difficili da sostenere nell’avida economia del mondo. Ma il calcio rimase e la vecchia storia si trasformò in nuova spinta politico-commerciale.

Qualche anno addietro, ricordo, prendemmo un autobus che in sei ore ci portò a Kathmandu. Era il 5 Settembre 2013, ed in quel giorno «undici valorosi guerrieri Gurkha» – come li definì un giornalista locale – si disfecero dei propri rivali indiani su un terreno secco e polveroso.

Tutti erano in trepidazione e l’antico urlo di guerra ayo gorkhali («sono arrivati i gurkha») riempiva l’aria al ritmo dei tamburi. La strade che circondavano il Dasarath Rangasala Stadium erano intasate da un traffico di taxi, motociclette e venditori di momo. Dalla vecchia stazione autobus di Ratna Park, disorientati da rumori e densità, io e Kim ci eravamo diretti verso il quartiere di Tripureshwor. Intorno all’impianto sportivo, belle ragazze si stavano dipingendo la bandiera nepalese sulle gote lisce e profumate. Divise, sciarpe e stemmi della nazionale venivano venduti con profitto. E i bagarini avevano un gran da fare nel tramutare biglietti in oro.

La nazionale di calcio nepalese, soprannominata gorkhali in una traslazione, sul campo da gioco, dei valori militari d’orgoglio e lealtà, si impose per due reti ad una sulla controparte indiana.
Già da settimane prima della partita con la storica rivale, i giornali locali, le televisioni, le radio avevano tralasciato pressanti questioni politiche, crisi economiche, problematiche sociali per concentrarsi sull’evento sportivo.

Influenti figure appartenenti a diversi schieramenti partitici avevano iniziato ad includere il calcio nelle proprie arringhe pubbliche.

La Banca Centrale aveva persino rilasciato una nuova banconota da 100 NRs (ca. 90 centesimi di Euro) recante la scritta Buddha was born in Nepal. Lo slogan, creato per rivendicare una proprietà nazionale troppo spesso messa in discussione dai potenti vicini meridionali, sarebbe poi rimbalzato di gola in gola all’interno dello stadio; avrebbe campeggiato su striscioni e bandiere; sarebbe stato dipinto sui petti glabri di giovani tifosi e mostrato con fierezza alle telecamere.

Era questa enormità del calcio ad affascinare Kim. Un’enormità che aveva già intuito nei racconti del nonno, stanziato coi Gurkha di base ad Hong Kong, ma che negli ultimi anni si era fatta sempre più accessibile, comprensibile. Non solo prestigiosi tornei internazionali potevano ora essere seguiti da casa; ma iniziavano a circolare voci di un grande movimento calcistico nell’area del mondo di cui Kim si sentiva parte. Sebbene ne ignorasse i dettagli finanziari, Kim sapeva che, a Sud, l’Indian Super League e la sua schiera di consistenti investimenti, campioni stranieri, sviluppi infrastrutturali, aveva portato il calcio indiano ad un nuovo livello d’eccellenza.

L’australiano Rupert Murdoch, patrono Sky, ne capitanava la resa mediatica come alcuni inglesi prima di lui avevano capitanato l’economia dell’area. Sebbene non comprendesse le logiche di un mercato capitalista, con quote di partecipazione, fondi d’investimento e riciclaggi, Kim era anche a conoscenza del progetto cinese di introdursi nel mondo della palla cucita.

E se le altre nazioni a lui vicine stavano compiendo mirabolanti progressi nel gioco che lui amava – si chiedeva di tanto in tanto – perché si sarebbe lui dovuto privare del sogno di un Nepal prospero, moderno, calcisticamente competitivo?

Tra le maglie del calcio altrui, Kim scorgeva la figura opaca del Nepal che avrebbe voluto. Guardando il calcio altrove, lui consumava nazionalismo. Immaginando la nazione, imparava a consumare. Finita la sbornia a Kathmandu, Kim tornò a calciar palloni tra un villaggio e l’altro, ed a seguire il vero calcio in televisione.

Divenne fan del Manchester United, del Real Madrid e di Cristiano Ronaldo. Con i soldi di Hong Kong e del Golfo Arabo comprò una sua maglia, indossata in attesa di Portogallo-Francia. Gli costò 4.000 Nrs (ca. 35 Euro), poco meno di quanto suo nonno soleva prendere come pensione dopo anni di servizio militare, all’incirca un quarto di quanto suo padre guadagna al mese costruendo stadi in Qatar.