Da tempo la Bce si dichiara pronta ad agire in maniera non convenzionale per contribuire a far uscire l’Eurozona dalla crisi. Ora sembra più chiaro come si potrebbe concretizzare l’azione di Francoforte. La settimana scorsa il suo presidente Mario Draghi ha annunciato la possibilità del cosiddetto quantitative easing (qe), cioè di un programma di acquisto di titoli, presumibilmente pubblici, dei vari paesi dell’area euro. Per la prima volta si è mostrato possibilista persino un falco come il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, anche se in seguito ha aggiustato il tiro, ma ormai il segnale era stato lanciato con conseguente euforia delle borse.

Da tempo molti, anche tra i critici dell’Unione Europea, auspicavano un tale intervento. I più ostili all’euro addirittura consideravano il mancato progetto di acquisto di titoli pubblici da parte della Banca centrale come una delle ragioni per uscire dall’euro e tornare al protagonismo di una propria banca nazionale. Si tratta però di riflettere sul potenziale di cambiamento rappresentato da tale protagonismo. Innanzitutto il ruolo della Banca europea va contestualizzato all’interno della generale fase monetaria espansiva. L’unica vera politica adottata contro la crisi dalle autorità è infatti quella monetaria. Il quantitative easing è stato già adottato dalle principali banche centrali, da quella statunitense a quella giapponese, passando per quella svizzera e inglese, con risultati modesti in relazione alla massa monetaria messa in circolazione. Seppur vi fossero, e vi sono tuttora, degli ostacoli ad adottarla in Europa, la Bce aveva sopperito a tale strumento con prestiti al sistema bancario (fino a 1000 miliardi), e come le altre autorità monetarie aveva ridotto i tassi d’interesse in modo considerevole. Insomma il protagonismo della Bce, per quanto in forme parzialmente diverse, vi è stato eccome. Non a caso si è attenuata la crisi dei debiti sovrani. Oggi potrebbe esserci un’accelerazione, ma con incongruenze e limiti specifici alle dinamiche presenti nel Vecchio continente. Il qe potrebbe rispondere a differenti necessità considerato il perdurare della stagnazione. Senz’altro favorisce le banche, comprese quelle tedesche, che potrebbero essere ricapitalizzate in vista dei prossimi controlli vendendo alla Bce una parte di titoli pubblici che posseggono. Potrebbe poi essere un modo indiretto per finanziare le imprese europee. Oppure per determinare l’abbassamento del valore dell’euro ai fini di rafforzare le esportazioni. Indubbiamente contribuisce a rilanciare i mercati finanziari, favorendo in qualche modo un “effetto ricchezza” che dovrebbe rilanciare i consumi, ma che difficilmente potrà rappresentare un elemento di tranquillità per i ceti popolari, tradizionalmente incapaci di accumulare ricchezza, ma con significative capacità di spesa. Importante, infine, risulta la scelta tra acquistare titoli dei soli paesi periferici oppure di tutti, in quanto nel secondo caso il differenziale dello spread rimarrebbe immutato e non rappresenterebbe un reale riequilibrio tra centro e periferia. Il risparmio sui costi del debito può essere rilevante, ma non rappresenta un cambio nella gestione delle finanze pubbliche, tanto più che con il qe si ribadisce che dovranno proseguire austerità e rigore, specie sul versante del welfare e del mercato del lavoro.

La scelta di salvare la finanza a mezzo della finanza ha già dimostrato, negli altri paesi che l’hanno adottata più massicciamente, di non attenuare le sperequazioni sociali, anzi pone condizioni per nuove bolle e conferma come non vi sia contrapposizione tra finanza ed economia reale, quanto tra economia e vita reale delle classi subalterne e popolari. Vedremo se l’Europa sarà un’eccezione oppure se verrà meno un altro alibi all’inefficacia sistemica.